
Il rialzo dei prezzi “armonizzato”, nei 19 paesi dell’Eurozona, ha rotto tutti gli argini e ha sfondato la barriera psicologica delle due cifre, toccando il 10%. La notizia ha terrorizzato tutti, specialmente i cosiddetti “specialisti” che, mettendo le mani avanti e facendo professione di pessimismo, avevano parlato di “una possibile inflazione al 9,7%”. Ma hanno sbagliato della bellezza di uno 0,3% in un mese, che ai non addetti ai lavori può sembrare poco, ma che, in effetti, è tanta roba.
“Inflazione volatile” -energia e cibo-, è aumentata rispettivamente del 40,8% e dell’11,8% su anno. Quella “core”, cioè il nocciolo duro, il più difficile da estirpare nel tempo, è passata dal 4,3% di agosto al 4,8% di settembre. Un valore giudicato dagli economisti, specie alla luce degli interventi della BCE, fin troppo elevato e destinato a salire ancora. Come abbiamo già detto in altre occasioni, il problema principale, che si trova davanti l’istituto di Francoforte, è la necessità di dover intervenire su un’area fiscalmente disomogenea, in cui ogni sistema-paese presenta specificità di mercato asimmetriche, rispetto a tutti gli altri.
Ci sono Stati come la Francia, che hanno un’inflazione di poco superiore al 6% (sulla carta), altri come l’Italia, che viaggiano intorno al 9%; l’Olanda, che supera il 17% e i baltici (Estonia, Lettonia e Lituania) che sfondano tutti abbondantemente il 20%. Come dicono molti analisti, però, c’è anche il fattore tempo che gioca contro la Banca centrale europea. La prossima riunione del “board” che dovrà decidere sul rialzo dei tassi è fissata per la fine di ottobre. Una pausa troppo ampia vista la velocità con cui si succedono gli stravolgimenti finanziari e, soprattutto, la fragilissima difesa del cambio finora portata avanti dall’istituto. Né valgono a modificare le aspettative i proclami di Christine Lagarde, che non riusciranno mai a convincere i mercati, condizionati dalla potenza di fuoco della Federal Reserve.
Comunque, al di là delle quantità in ballo, ciò che colpisce anche i profani è l’estrema difficoltà a prevedere il comportamento di mercati che ormai sono in piena fase caotica. Piccole variazioni nella catena di formazione dei prezzi si legano, in modo esponenziale e con dinamiche non lineari. Per dirla in modo più comprensibile, nessuno è in grado di dire, con certezza, quello che capiterà domani. Figuriamoci il mese prossimo. Questo rende molto più complicata l’azione dei governi e, soprattutto, quello della Banca centrale europea. L’inflazione nell’Eurozona continua a impennarsi, sebbene la BCE sia già intervenuta due volte per alzare i tassi. Tuttavia, la sua politica monetaria è stata debole, lenta e, soprattutto, incapace di muoversi in sincronia con la crisi (chiarissima) dei mercati.
Nouriel Roubini, della New York University, pensa che l’Europa si stia dirigendo verso un periodo di stagflazione, con prezzi molto elevati e crescita stagnante. “La BCE dovrebbe aumentare i tassi più velocemente, anche se questo causerà stress politici, economici e finanziari”. Secondo Jessica Hinds (Capital Economics) poi, il fatto che il tasso di disoccupazione sia tutto sommato contenuto (6,6%), continuerà ad avere effetti di tensione sul costo del lavoro, che resterà più alto della media. Ma come di traduce questa tempesta perfetta sulla tenuta dell’Unione? “Nei momenti più bui si vedono i veri amici”. Bene, ad applicare un tale vecchio adagio all’Europa, di questi tempi, si resta un po’ sconcertati.
Ogni “socio” sembra più preoccupato di badare ai fatti suoi, piuttosto che aiutare gli altri a risolvere i loro problemi. Uno, in particolare, lo sta facendo sfacciatamente: la Germania. Il tessuto produttivo tedesco si sta sfilacciando, sotto i colpi di una crisi energetica epocale. L’inflazione ha raggiunto l’astronomica cifra del 10,9% e la gente è già scesa per le strade a protestare, specie nei lander orientali, il Mecklenburg e la Pomerania. Insomma, il governo rosso-verde di Scholz comincia a temere il peggio, cioè turbolenze sociali che potrebbero dilagare a macchia d’olio. Per questo ha stracciato tutti gli impegni di solidarietà, per un piano comune che affronti i danni collaterali della crisi energetica, e tira dritto per la sua strada.
Tra l’altro, la Germania utilizzerà i 200 miliardi, a debito, con un trucco contabile, perché cadranno sul capitolo “fondi recupero pandemia”. Pandemia? Non c’entra niente. Questo puzza di aiuto di Stato e il Commissario alla Concorrenza dovrebbe aprire gli occhi. Inutile sperare nella Von der Leyen: lei “vigila”, ma solo sulle cose che non le competono.