Per trenta settimane centinaia di migliaia di cittadini si sono riversati per le strade delle principali città israeliane in aperta opposizione a una riforma e a un governo che starebbero mettendo in pericolo la democrazia del paese. A loro si sono uniti migliaia di riservisti dell’esercito e dell’aeronautica, prima minacciando di non prestare il servizio volontario, poi mettendo in atto la minaccia. Quasi la metà degli istruttori addetti ai programmi di formazione per i piloti non si sono presentati in servizio e la durata dei corsi è stata perciò ridotta. Che i riservisti di tutte le Forze armate non rispondano all’appello mette la sicurezza di Israele a grave rischio, sostiene il capo di Stato Maggiore, Herzl Halevi, esagerando. Ma il problema politico è grave sotto molti punti di vista, e quello militare non è il principale.
Le forzature del governo sulla riforma giudiziaria (Netanyahu inquisito per corruzione, in attesa di processo a fine mandato) hanno provocato reazioni negative nella vasta e potente comunista ebraica statunitense. Il presidente Biden è intervenuto più volte sulla questione, ricordando a Netanyahu i valori democratici condivisi dai due paesi. Ma questi valori sono ancora, davvero, condivisi? si chiede Anna Maria Cossiga. Intanto, l’agenzia di rating Moody’s avverte che un lungo periodo di tensioni politiche e sociali può avere effetti negativi sull’economia e sulla finanza di Israele, mentre gli investitori fuggono e numerose aziende high-tech trasferiscono all’estero capitali e personale.
Ma il ministro delle Finanze Belazel Smotrich, ha affermato che la sua visione dell’economia è seguire i dettami della Torah e che, così facendo, Israele otterrà la prosperità economica e grandi benedizioni.
Lo stesso Belazel Smotrich, leader dell’estrema destra, residente in una colonia in Cisgiordania, prima di diventare ministro aveva già espresso chiaramente il suo pensiero anche sulla questione palestinese: «Il popolo palestinese è un’invenzione che ha meno di cent’anni di vita. Hanno una storia o una cultura? No, non le hanno. I palestinesi non esistono, esistono solo gli arabi». Problemi di cultura democratica molto profondi. Addirittura sulla stessa identità ebraica. «I suoi cittadini non sono d’accordo su chi sia un ‘vero ebreo’ – un dissidio, tuttavia, vecchio quanto l’ebraismo stesso – e, forse per la prima volta nei 75 anni appena compiuti, Israele sembra avere problemi nel concordare sul concetto stesso di democrazia».
La stampa israeliana ormai parla di una possibile deriva autoritaria del paese. E questo accade non solo tra i commentatori di quotidiani progressisti, ma anche tra quelli tradizionalmente conservatori. Persino il Jerusalem Post, quotidiano tradizionalmente conservatore, definisce il 24 luglio (l’approvazione della legge alla Knesset) «una data che sarà ricordata come un’infamia, in cui l’impresa sionista è stata attaccata da nemici interni, capeggiati dall’imperatore delle menzogne». E un editorialista del The Times of Israel, quotidiano moderato, si definisce «insonne politico», e analizza con profonda afflizione i pericoli che incombono sul suo amato paese. Sente vicina la fine della «storia piena di successi di Israele, messa a rischio da un’alleanza di ultra-nazionalisti, di fondamentalisti religiosi e di semplici corrotti».
Sempre il povero ‘insonne politico’ citava un parlamentare di destra che ha osato urlare contro i manifestanti anti governativi, che «desiderava che ne fossero uccisi altri sei milioni», mentre un altro non si è fatto scrupoli a dichiarare che «capiva perché Hitler avesse ucciso sei milioni di ebrei ashkenaziti» (era una parlamentare di orgine mizrachi, cioè dei paesi arabi). «Se qualcosa di simile fosse detta fuori da Israele -ha concluso l’editorialista-, si griderebbe all’antisemitismo».
Ad onor del vero, qualcuno che vede positivamente la riforma esiste. Ci sono state manifestazioni in suo favore e in favore del governo. «Evviva la democrazia, dunque: la stampa è ancora libera. In Israele, la libertà di parola è assicurata e i cittadini possono manifestare pro e contro il governo in carica. Premier e ministri sono sicuri di sé e non sembrano dare alcuna importanza alle critiche, né preoccuparsi delle ire statunitensi o delle previsioni nefaste per quanto riguarda l’economia e la sicurezza del paese». Ma è davvero tutto così?
Ma se le previsioni opposte come quelle di Cassandra e, non credute, si avvereranno? Opportuna la citazione testuale di Limes. «Netanyahu farebbe di tutto per salvarsi dai processi. Il sionismo religioso sarebbe disposto a venire a patti con il diavolo per continuare a costruire insediamenti e i partiti haredim farebbero lo stesso per avere più fondi per gli studiosi delle loro yeshivà». La Knesset ha chiuso per l’estate, ma probabilmente chi protesta non andrà in vacanza.
Insomma, situazione tesissima e confusa con troppe variabili in campo. Gli estremisti religiosi che hanno in pugno il futuro del governo e Netanyahu non vuole andare in carcere. Ma siamo molto vicini all’autolesionismo politico, quasi sull’orlo della catastrofe.
Netanyahu a Roma. Nell’album di famiglia s’intravede il duce. Ambasciata d’Italia verso Gerusalemme?