
Gli Stati Uniti provano a gettare acqua sul fuoco con Blinken tra Tel Aviv, Arabia Saudita ed Egitto. Ieri è stato in Giordania, dove ha incontrato il re Abdullah II e poi è volato in Qatar, affermando in una conferenza-stampa che «la crisi in Libano potrebbe metastatizzarsi..». Ma, paradossalmente, lo scoglio più difficile da superare, è quello dell’alleato israeliano, per il quale Biden si sta esponendo in misura straordinaria e, per certi versi, anche in modo sproporzionato.
Ieri Blinken, consapevole di questa difficoltà, ha messo le mani avanti, criticando pesantemente alcune dichiarazioni di ministri estremisti del governo israeliano. In particolare, il Segretario di Stato Usa ha giudicato ‘irresponsabili’ le parole di Bezelel Smotrich e di Itamar Ben-Gvir, sull’eventuale trasferimento forzato di palestinesi da Gaza. In effetti, la situazione che si trova ad affrontare Blinken è molto complessa e non riguarda solo Gaza. Voci di corridoio parlavano anche di timori, alla Casa Bianca (non del tutto infondati), su un possibile ‘colpo di teatro’ di Netanyahu: un massiccio attacco preventivo contro Hezbollah. Una vecchia idea del suo ministro della difesa, Yoav Gallant.
Proprio ieri uno dei ‘supergenerali’ del governo di emergenza, Benny Gantz, ha accennato a «possibili soluzioni diplomatiche». Ma Gantz è un oppositore, un vecchio nemico di Netanyahu, e il suo punto di vista può non rappresentare quella che sarà la decisione finale. E, quasi a smentire Gantz, sono arrivate le precisazioni del Capo di Stato maggiore dell’esercito, Herzl Halevi, che non solo non ha escluso una guerra in Libano, ma ha anche aggiunto che «Israele la saprà fare in modo eccellente» (dimenticando che in Libano nel 2006, fu guerra persa senza alcun obiettivo raggiunto).
A Gaza, pure ieri ci sono stati almeno 150 morti, e la crisi (lo abbiamo letto nell’articolo precedente), rischia di diventare senza uscita. Manca qualsiasi traccia di piano per l’Amministrazione della Striscia e per la sua successiva ricostruzione. Una situazione paradossale, perché si sta bombardando a tutto spiano e uccidendo, ma poi non si sa cosa si farà il giorno dopo. Naturalmente, per Netanyahu, più dura la guerra e più tempo lui avrà per risolvere i suoi problemi interni, sia quelli politici che quelli aperti con la giustizia.
Per questo, il premier israeliano ha già avvisato Blinken prima del suo arrivo: «La guerra – ha detto parlando in Consiglio dei ministri – non deve essere fermata fino a quando non avremo raggiunto tutti i nostri obiettivi. Cioè, eliminare Hamas, restituire tutti i nostri ostaggi e garantire che Gaza non costituirà mai più una minaccia per Israele. Lo dico sia ai nostri nemici che ai nostri amici. Questa è la nostra responsabilità e il nostro impegno». Un vero e proprio ‘altolà’ che fissa una linea rossa invalicabile: decide solo Israele, come fare la guerra e quanto i bombardamenti devono durare. Lo ha ribadito, da un punto di vista ‘tecnico’, lo stesso generale Halevi, dicendo che i combattimenti a Gaza dovrebbero protrarsi almeno per tutto il 2024.
Se il quadro è questo, le possibili opzioni di Blinken si restringono notevolmente. Il Segretario di Stato sta cercando di dare una ‘riverniciata’ all’immagine degli Usa verso il vasto blocco dei Paesi islamici e del Sud del mondo. In molti non hanno condiviso le strategie di Biden in Medio Oriente e la sua sostanziale indifferenza per i 22 mila morti (finora) di Gaza.
Blinken ha detto che occorre fare di più per i civili e per aumentare gli aiuti umanitari. A dargli man forte anche l’inviato speciale della Casa Bianca, Amos Hochstein, il quale ha seccamente invitato i ministri israeliani a evitare «spacconate che favoriscono l’escalation, e a concentrarsi, invece, sulla diplomazia». Ma, come sopra, Netanyahu dixit.