Dunque i Paesi ricchi guidati da Usa e Ue, e quelli emergenti e in via di sviluppo guidati dalla Cina, hanno concordato di istituire un fondo per ‘ristorare’ – che vuol dire risarcire in minima parte -, le perdite e i danni causati dal riscaldamento globale nei Paesi più poveri e vulnerabili. Era il punto più spinoso della trattativa, quello sul quale ha rischiato di saltare il tavolo.
Il rischio di un fallimento della Cop, di una conferenza che finiva senza risultati tangibili, è stato formalmente sventato. Sul crederci veramente, più atto di fede che di razionalità. A Sharm sarà nominata una commissione di esperti, che porterà il progetto del fondo alla prossima Cop28 di Dubai, l’anno prossimo. E lì potremo scoprire, volendolo, tutte le balle che i ‘Grandi bugiardi’ ci avranno ancora una volta raccontato.
La giornata a Sharm era cominciata malissimo. Il vicepresidente della Commissione europea, Frans Timmermans, aveva annunciato che la Ue era pronta a lasciare il negoziato se non si arrivava ad un accordo accettabile. L’Unione qualche giorno fa aveva detto sì controvoglia al fondo per i “loss and damage”, risarcire in minima parte -, le perdite e i danni causati dal riscaldamento globale nei Paesi più poveri e vulnerabili chiesto a gran voce dai paesi del G77, l’organizzazione intergovernativa delle Nazioni Unite, formata da 134 paesi del mondo, principalmente in via di sviluppo, +Cina, guidati da Pechino.
L’Unione temeva che sarebbe stato troppo oneroso e avrebbe richiesto troppo tempo. Ma di fronte alla posizione compatta del G77 e della Cina, la Ue aveva finito per cedere. Avendo però messo delle condizioni. Il fondo doveva essere destinato solo ai paesi più vulnerabili, e non a tutti i paesi in via di sviluppo, fra i quali risultano ancora superpotenze come Cina e India. E doveva essere finanziato da una base più ampia di donatori, quindi anche dalla Cina, che invece voleva scaricare l’onere solo sull’Occidente. Nel pomeriggio, la Cina e il G77 più o meno in via di sviluppo hanno ammesso che i destinatari degli aiuti saranno i Paesi più vulnerabili, e che sarà ampliata la platea dei donatori.
L’altra richiesta dell’Ue: «Il fondo deve essere basato su di un’analisi del mondo di oggi, dobbiamo ampliare la base di chi riempie questo fondo di soldi». Quindi non solo Ue, Usa, Giappone, Canada, Australia, ma anche paesi – soprattutto la Cina – che seguendo la suddivisione presente nella Conferenza Onu per i cambiamenti climatici – Unfcc del 1992 risultano ancora fra quelli in via di sviluppo; uno schema che secondo l’Ue va archiviato). E gli europei anche questo hanno ottenuto, anche se senza dettagli.
Scettico sulla reali intenzioni europee il ‘Climate Action Networ’k, coalizione di 1.900 gruppi in 150 paesi: «l’insistenza dell’Ue e di altri sugli 1,5°C non ha senso se i paesi ricchi continuano a investire nei combustibili fossili, permettono nuove esplorazioni, rifiutano di fare davvero la loro parte nell’azione climatica e non onorano i loro impegni per la finanza climatica a favore di una giusta transizione energetica dei paesi in via di sviluppo».
Sui combustibili fossili resta e la blanda formulazione di Glasgow: riduzione (phase-down) del carbone (non di tutti come chiesto dall’India), e semplice eliminazione graduale (phase-out) dei sussidi «inefficienti». Indignati gli ambientalisti che ci vedono lo zampino dei lobbisti e dei petro-Stati.
Infine nella bozza si ammette che neanche quest’anno raggiungeranno i 100 miliardi di dollari in finanza per il clima a vantaggio dei paesi in via di sviluppo. Naturalmente. Sarebbe troppa grazia. Così come un riferimento alla necessità di un phase-down delle emissioni del settore militare, che se fosse un paese sarebbe il quinto al mondo.