
In Congresso Usa ha approvato il nuovo ‘tetto sul debito federale’ concordato dai due partiti, con 314 voti a favore e ben 117 contrari. Cioè, l’accordo rifinito da presidente e vertici repubblicani, è stato respinto da più del 25% dei congressisti. Per l’esattezza, si sono opposti 46 Democratici, e la bellezza di 71 Repubblicani. Ancora più spaccato, in proporzione, stanotte, il Senato: solo 63 a favore e ben 36 contrari. Che significa tutto questo? Che d’ora in poi, far passare alla una legge di bilancio o un impegno di spesa diventerà politicamente pericoloso, come in una guerra tra bande. Il Parlamento americano, immagine speculare del Paese, è di fatto frantumato e i partiti tradizionali sono ormai dei contenitori, degli scatoloni riempiti alla rinfusa, di programmi e ideologie spesso contraddittori. Tutti i commentatori hanno sottolineato che l’unica buona notizia di questo ‘disaccordo’, è quella di avere evitato il fallimento delle casse federali.
Concretamente, a parte qualche limatura sugli ammortizzatori sociali e sul possibile nuovo incremento della spesa pubblica, i termini del ‘gentlemen’s agreement’ sembrano premiare di più la Casa Bianca. A parte la stizza degli ambientalisti, per il via libera dato all’oleodotto degli Appalachi. Intendiamoci, però: il default sarebbe stato più formale che sostanziale, ma comunque sufficiente a sfregiare, in modo doloroso, il prestigio degli Stati Uniti e le chances di rielezione di Biden. Perché la ratio della lunga pantomima porta a questo. Una valutazione fatta, ecumenicamente, da tutta la stampa. Anche da quella più ‘liberal’, come il Washington Post, che ha proposto non solo l’analitica geografia del voto parlamentare, ma anche il background ideologico dei singoli rappresentanti.
Nella lunga lista dei ‘no’ riportata da WP, si leggono nomi famosi e significativi, come quelli delle ‘pasionarie’ democratiche Ocasio Cortez e Pramila Jayapash. Non mancano nemmeno Repubblicani di grido, del calibro di Chip Roy, Matt Gaetz e Nancy Mace. L’analisi disaggregata del voto, fatta da WP con un metodo statistico chiamato ‘Dw-Nominate’, che si basa su un modello elaborato nelle università Carnegie-Mellon e di Princeton, mostra che sono le aree estreme, a destra e a sinistra, della Camera Usa, a rifiutare l’intesa Biden-McCarthy. Si tratta, come abbiamo visto, di gruppi molto folti, capaci di influenzare in modo determinante l’esito di votazioni che si giocano sempre sul filo del rasoio. Ma nel caso specifico, sullo sfondo, s’intravedono le elezioni per la Casa Bianca del 2024.
Se i giochi sembrano ormai fatti, tranne clamorose sorprese, per la ricandidatura di Biden, la situazione nel GOP è meno chiara di quanto possa sembrare a prima vista. Donald Trump, nei sondaggi attuali, ha un consistente vantaggio come possibile sfidante, con almeno 25 punti su Ron DeSantis. Entrambi, in scontri simulati da ‘RealClearPolitics’, contro l’attuale Presidente, risulterebbero vincenti. La prima battaglia, dunque, è per le primarie.
Sul tetto del debito Usa, il Governatore della Florida ha fatto la prima mossa ed è andato all’attacco, mentre Trump, prudentemente, stava alla finestra. Il New York Times dà atto a DeSantis ‘di avere colto il momento’. Sostanzialmente, scrive Jonathan Weismann, ha inserito la campagna per le Presidenziali nella battaglia per il debito federale, obbligando gli altri candidati del GOP a schierarsi. DeSantis è contrario a un accordo che giudica inconsistente e che, fa capire, bacchettando esplicitamente McCarthy, è di fatto una vittoria di Biden. «Il nostro Paese stava andando verso la bancarotta, prima che l’accordo fosse concluso – ha dichiarato in un’intervista a ‘Fox and friends’ – ma dopo l’accordo, andremo lo stesso verso la bancarotta». DeSantis ha tirato fuori l’artiglieria pesante contro Trump, proprio su un argomento spinoso come quello del debito federale. Si tratta di una questione che ‘The Donald’ non ama approfondire più di tanto. Anzi, per essere precisi, è uno di quei temi che scansa come la peste perché, proprio lui, ha molti scheletri nell’armadio.
I suoi selvaggi tagli alle tasse nel 2017 e l’aumento esponenziale delle spese militari, seguito dai salassi finanziari per arginare la pandemia, hanno aggravato il ‘profondo rosso’ del bilancio. Dal passivo ereditato nel 2016 (590 miliardi di dollari), la Presidenza Trump è passata a perdite sempre più accentuate: 670 miliardi del 2017; 780 miliardi nei 2018; 980 miliardi nel 2019; fino ad arrivare a uno strabiliante 3,13 trilioni di dollari nel 2020, l’anno cruciale della pandemia.
«In definitiva – conclude il New York Times – Trump ha aggiunto 7,8 trilioni di dollari di spesa in deficit nell’arco di 10 anni, attraverso la legislazione e gli ordini esecutivi durante i suoi quattro anni in carica. Tutto questo ha dato ai suoi rivali un’opportunità che, finora, solo DeSantis ha saputo cogliere».