Le guerre, le armi e il fronte interno. Quando gli arsenali non bastano

Nelle guerre di attualità, drammi diffusi oltre la prima pagina di Ucraina e Gaza, l’insistere con i soli arsenali più o meno forniti, può portare ad errori tragici. Così almeno insegna la storia.
‘Fronte interno’, per descrivere la decisiva influenza che i sentimenti nell’opinione possono esercitare sulla conduzione e, quindi, sull’esito di una guerra.
E per stare vicini ad una parte dell’attualità, partiamo dalla Russia del 1917, poi Francia e Italia della guerra mondiale e, memoria per la superpotenza Usa, in Vietnam.

Crolli del fronte interno

Russia, primavera 1917

All’inizio del 1917, dopo tre anni di guerra contro la Germania e l’Austria-Ungheria, l’impero russo era stremato, sia per le gravissime perdite subite in battaglie disastrose, sia per le enormi difficoltà nel rifornire le truppe al fronte e nel vivere quotidiano. Si moriva letteralmente di fame. Nonostante la crisi fosse evidente, i circoli di corte – arroccati nella difesa di antichi privilegi – continuavano a negare le riforme necessarie. Alla metà febbraio cominciò un’ondata di scioperi: lo zar Nicola II, nella convinzione di trovarsi di fronte all’ennesima crisi risolvibile con la forza, sciolse il parlamento ed ordinò all’esercito di reprimere le sommosse.
Accadde esattamente il contrario perché nella capitale i soldati si unirono ai rivoltosi distribuendo armi e scoppiò una rivolta anche a Mosca: all’annuncio tardivo della concessione di riforme il 2 marzo, gli insorti dichiararono decaduto lo zar e proclamarono un governo provvisorio sostenuto dai rappresentanti di diversi partiti che andavano dai liberali ai socialisti rivoluzionari.
Lo zar che aveva cercato nuovamente l’appoggio dell’esercito partendo per il fronte, fu costretto ad abdicare, sottoscrivendo l’atto di rinuncia in un vagone del treno imperiale fermato in aperta campagna degli insorti. Nell’atto era indicato come successore il fratello granduca Michele, ma questi – constatato il livello di impopolarità toccato dalla famiglia imperiale – rinunciò al trono ponendo fine alla dinastia dei Romanov.

Giugno 1940, il crollo della Francia

Dopo l’attacco alla Polonia condotto dalla Germania nazista nel settembre 1939 e la dichiarazione di guerra franco-inglese, il fronte occidentale rimase immobile per mesi nell’illusione che la linea Maginot proteggesse la Francia all’infinito. La tempesta si scatenò invece il 10 maggio 1940: aggirando la linea fortificata attraverso la foresta delle Ardenne, ritenuta con eccessivo ottimismo invalicabile, le divisioni corazzate tedesche penetrarono in massa in Francia. Quattro giorni dopo, nel corso di una drammatica telefonata tra il presidente del consiglio Paul Reynaud e il primo ministro Winston Churchill, il francese pronunciò più volte la parola ‘sconfitta’ ad un attonito premier inglese che accorse a Parigi poche ore dopo.
A parte l’incontro ufficiale con i vertici dell’esercito, dove molto parlarono di ‘sconfitta irreparabile’ a turbare ulteriormente Churchill fu lo spettacolo nel cortile del ministero degli esteri dove funzionari e uscieri portavano centinaia di faldoni di documenti  e li gettavano in falò improvvisati.
Era chiara – annotò Churchill nelle sue Memorie – la volontà del governo di abbandonare Parigi al suo destino. Nelle stesse ore era incominciata frattanto la fuga delle popolazioni civili dalle zone di guerra: al grido di «Stanno arrivando i ‘boches’!» centinaia di migliaia di francesi in preda al panico si erano riversati sulle strade per fuggire, ma le colonne dei profughi finirono per bloccare i percorsi lungo i quali si tentava disperatamente di far affluire i rinforzi diretti al fronte.

Italia, estate 1943

Meno rapido del disastro francese, ma che produsse conseguenze altrettanto drammatiche, fu il crollo dell’Italia nell’estate 1943. Il primo segnale forte dello sgretolamento imminente fu senza dubbio lo sbarco in Sicilia, avvenuto sulla costa di Gela nella notte tra il 9 e il 10 luglio, ma in precedenza erano stati sottovalutati gli scioperi in vari centri industriali del Nord. Per il regime, che si era sempre vantato di aver revocato il diritto di sciopero, fu un colpo che manifestò una scollatura con il paese reale.
A Feltre, nel Bellunese, un concitato incontro tra Hitler e Mussolini il giorno 19: il dittatore tedesco condusse un lungo monologo rivolto a Mussolini, che non riuscì a reagire di fronte all’irrefrenabile irruenza tedesca. La misura fu colma alla conclusione della stessa giornata quando, prima del rientro a Roma, arrivò la notizia del bombardamento della capitale. Da quel frangente si accelerò la crisi che sarebbe culminata nella seduta del Gran consiglio tra il 24 e il 25 luglio.
È ormai noto che – sebbene siano ancora indicati come principali fautori della crisi del regime Dino Grandi e Luigi Federzoni – in realtà la via che portò alla caduta di Mussolini fu un autentico labirinto di diverse cospirazioni, talune interne al regime, ma altre esterne come i contatti della Santa Sede con gli alleati o il ruolo centrale svolto dalla monarchia, o per meglio dire – secondo la definizione di uno storico – della ‘sfinge’ che sedeva al Quirinale che seppe cogliere rapidamente gli eventi a proprio vantaggio.

Saigon, aprile 1975

Nel gennaio 1975 l’esercito nordvietnamita cominciò ad esercitare una forte pressione verso Saigon. Nel corso della presa di Danang, che era stata la più grande base militare del Sud-Est asiatico e forse del mondo, si verificò un episodio che – riprodotto in una foto dell’agenzia United Press – avrebbe assunto un significato simbolico anticipando altre immagini del crollo del regime di Van Thieu: un militare americano colpiva un collega sud-vietnamita, ovvero un alleato, che cercava di salire a bordo dell’ultimo aereo americano in partenza.
A metà aprile il fronte era arrivato a sessanta chilometri da Saigon mentre si diffondeva la notizia che Thieu era riparato a Taiwan, omettendo il particolare dei lingotti d’oro al seguito. Il 27 aprile il nuovo governo di Duong Van Minh ricevette l’incarico dall’assemblea nazionale di trovare una strada per la pace, ma era ormai troppo tardi. A partire dal 28 aprile Saigon fu bombardata da razzi per due notti di seguito, anche se l’ambasciatore americano Graham Martin aveva dichiarato alla televisione che sarebbe rimasto comunque nella città sotto assedio.
Nel giardino dell’ambasciata non c’era spazio a sufficienza per fare atterrare elicotteri di grandi dimensioni che avrebbero evacuato il personale e numerosi vietnamiti: quando fu abbattuto l’ultimo grande tamarindo del giardino, vincendo le resistenze dell’ambasciatore pressato dal capo della CIA a Saigon Polgar, la città era in mano ai nordvietnamiti e gli americani avevano subito uno dei maggiori smacchi al loro prestigio internazionale.

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