Beato il dubbio nella terra delle certezze

A nessuno che abbia un ruolo di potere piace essere messo in discussione. Possiamo dire che viviamo zigzagando, nel mondo dell’informazione, in quello culturale e politico, fin nelle declinazioni della vita di ogni giorno, tra certezze quasi sempre assolute e verità che sembrano scolpite sulla pietra. In un sistema di fortificazioni delle certezze e di paure che un dubbio possa minarle.

Eppure il senso critico, quello animato dal sano dubbio, è l’unica strada che possediamo per non finire alla catena di un’obbedienza conformista che implichi assuefazione a regole spesso sbagliate, a sistemi politici ed economici assurdi, a un’accettazione di efferatezze che non sfiorano minimamente le coscienze.

La virtù del dubbio e le certezze del potere

Questo spiega perché chi ha potere, un qualunque potere, ama la certezza (delle logiche che garantiscono il potere) e detesta il dubbio (che sempre mette in discussione le logiche ponendo domande etiche).
Potremmo aggiungere che le cose della vita che non siamo disposti a mettere in discussione non sono oggetto di conoscenza da parte nostra, ma sono considerabili semplicemente “istruzioni”.
E la società in cui viviamo, con il suo carico di ingiustizie sociali, di soluzioni militari orientate dall’industria della guerra, di profitti enormi e legalizzati sulla pelle della povera gente, di cinismo politico e stupidità diffusa, si basa proprio su questo principio: l’assenza di dubbio, cioè la perdita del senso critico, lo spegnersi delle domande essenziali a favore delle risposte preconfezionate. A favore di quel genere di informazioni che servono per istruire, non per attivare conoscenze.

I mille perché senza risposte

Di questo parliamo quando, a fronte del deserto sociale che ci inaridisce, proviamo a chiederci il perché. O ci fermiamo a pensare a quando sia cambiato il mondo davanti ai nostri occhi, rendendoci comparse. Persone che in cambio di niente hanno accettato di smettere di rivendicare diritti, scegliendo di farsi guidare sempre e solamente dalla potenza militare del marketing, di quell’insieme di regole e algoritmi che implicano l’accettazione delle scelte del più forte, del più potente, del più ricco e spesso più capace nell’ottenere il risultato proprio per questioni di quantità di investimenti.
Lo so, amici e studiosi del marketing in ogni sua declinazione, è un po’ estremo questo ragionamento.

La fascisteria culturale che accetta la guerra

Ma, aggiungo, va considerato il contesto, l’effetto che provoca sui nostri ragazzi, sulle menti meno critiche il bombardamento totale di segnali, anche discordanti, pieni di libertà e contraddizione: ma tutti, alla fine dei conti, in linea con una costruzione assuefatta della vita. In una società che lentamente, passivamente, accetta la guerra, il razzismo, il ritorno della fascisteria culturale, la cattiveria come riferimento doveroso di modernità post-ideologica. Perdendo per strada la cura e l’attenzione per il bene comune, per il vantaggio di tutti, per una vita in cui si possa ritenere la sanità pubblica un valore, la scuola pubblica per i nostri figli un valore, la giustizia sociale un valore, l’eguaglianza di diritti e di doveri un valore.

Eh, beato il dubbio nella terra in cui si viaggia in prima classe con gli occhiali graduati sulle certezze assolute.

 

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