
Mentre Washington abbraccia le barriere e gli accordi bilaterali, Pechino si impone come il campione del commercio libero e aperto, un ruolo che gli Stati Uniti hanno dominato per decenni. Molto più di uno stratagemma tattico, il ‘ricablaggio’ del sistema commerciale – come lo definisce Laurie Chen su Reuters – è una strategia a lungo termine per la Cina. Il suo prossimo piano economico quinquennale delinea i modi per salvaguardare il sistema commerciale multilaterale e promuovere flussi economici internazionali più ampi.
Ma quella cinese è una fotografia in bianco e nero. Molti paesi asiatici sono diffidenti nei confronti del sostegno dichiarato della Cina, data la sua posizione di difesa muscolare nella regione, il dominio nel settore manifatturiero e la sua volontà di utilizzare i controlli sulle esportazioni e altri strumenti nelle controversie commerciali. Il riferimento è all’ostentazione di Pechino ad usare la clava sugli accordi commerciali per le terre rare, come ha lamentato la delegazione giapponese al vertice.
Resta l’opinione diffusa che l’aggiornamento dell’accordo di libero scambio con gli aderenti all’APEC non fa che rafforzare la posizione dominante della Cina, in termini di impegno economico regionale. «In confronto, gli accordi commerciali bilaterali degli Stati Uniti con i singoli paesi sono molto affari limitati nella loro portata» ha detto Yun Sun, co-direttore del Programma per l’Asia orientale presso il think-tank Stimson Center, in riferimento all’accordo Cina-ASEAN. In altre parole, gli Stati Uniti sono alle prese con enormi problemi di finanza pubblica e stanno facendo affari minori in confronto a quelli che sta programmando la Cina che, ricordiamolo, non ha bisogno di consensi per approvare i piani quinquennali della sua politica economica e monetaria.
Il messaggio pare sia arrivato anche ai mercati e c’è puzza di bruciato nei corridoi di Wall Street. I tre principali indici hanno perso terreno con il Nasdaq Composite e l’S&P 500 in testa alle perdite, mentre le azioni di Meta e Microsoft sono crollate dell’11,3% segnando il maggior calo giornaliero in tre anni. In termine tecnico si chiamano “correzioni” o “ritracciamenti”, ma i mercati sono fatti anche di “sentiment” e non solo di numeri e tutti conosciamo la loro incontinenza emotiva: l’incertezza diventa prima o poi paura e la paura si trasforma in panico.
Dopo le dichiarazioni coreografiche di Trump su grandi accordi e amicizie orientali, il braccio armato dei suoi consiglieri economici è tornato alle prese con la Fed. Perché il governatore della banca centrale americana, Jerome Powell, sembra intenzionato a lasciare il posto sbattendo la porta. Tra le righe delle sue dichiarazioni in previsione del prossimo taglio dei tassi a dicembre, si possono leggere alcune vere e proprie minacce alla strategia di Trump. «Un ulteriore taglio dei tassi non è affatto scontato» ha detto Powell.
A seguito di queste affermazioni, incalzato dai giornalisti in conferenza stampa ha aggiunto: «Cosa fareste, se vi trovaste a guidare nella nebbia? Rallentereste». Il conflitto interno alla Fed è lo specchio della vulnerabilità dei conti pubblici americani. A dicembre la Fed metterà fine al processo di riduzione della quantità di obbligazioni detenute nel bilancio della Banca centrale con lo scopo di frenare l’inflazione, rendendo il credito più costoso e riducendo la liquidità nel sistema economico. Molti analisti interpretano questo come il segnale che qualcosa sta per succedere perché tutti sanno che l’economia non va come la racconta Trump.
I salari non hanno tenuto il passo con l’inflazione, i pignoramenti delle case sono aumentati e a Wall Street la bolla del digitale si sta gonfiando a dismisura. A proposito del recente crack della Tricolor Holdings, una società finanziaria di mutui per automobili che usava lo schema truffaldino del ‘sub-prime’, il capo della grande banca JPMorgan ha usato una metafora per mettere in dubbio la solidità del sistema finanziario americano: «Quando vedi arrivare un bacarozzo, sai che ce ne sono altri in giro».