Verso Xi-Trump in Malesia, il Dragone e il Minotauro

«Tira buona aria nel commercio globale», titola Bloomberg in previsione dell’attesissimo incontro tra i leader di Usa e Cina al vertice in Malesia. Le borse festeggiano e gli analisti delle principali redazioni economiche lasciano intendere che i due contendenti non abbiano interesse a rallentare l’interscambio commerciale.

Dando retta agli umori di Trump

Il presidente degli Stati Uniti che incontrerà giovedì il suo omologo cinese si è dichiarato fiducioso di concludere un ‘buon accordo commerciale con Pechino’. Mentre Xi si affida all’insinuante retorica del Global Times che annuncia con il suo editoriale che «Cina e Stati Uniti sono pienamente in grado di aiutarsi a vicenda per raggiungere il successo e prosperare insieme, per il bene dei due Paesi e del mondo intero». Al vertice Apec i cinesi ci stanno arrivando a passi felpati e distensivi, come dimostrano i ritardi ai controlli sulle esportazioni di terre rare e la decisione delle principali compagnie petrolifere statali cinesi di sospendere gli acquisti di petrolio russo trasportato via mare dopo che gli Stati Uniti hanno imposto sanzioni a Rosneft e Lukoil.

Più ‘sentiment’ che fatti

In un mercato dove il ‘sentiment’ è più importante dei dati, la grande finanza ha l’obbiettivo di rassicurare gli investitori e rispondere all’aspettativa dei risparmiatori di un mondo in cui tutto tornerà come prima. Ma così non è perché, mai come oggi, i rapporti di forza nella guerra commerciale rappresentano il punto d’incontro-scontro tra economia e geopolitica. Il che non esclude la necessità reciproca di continuare a fare affari, ma la domanda che deriva è se oltre all’interesse ne avranno anche la forza. Perché, messe a confronto le due potenze economiche, le debolezze degli Stati Uniti appaiono evidenti sul breve e sul medio termine. I recenti dati sulla salute dell’economia americana dimostrano che con un’inflazione al 3%, in leggero calo rispetto alle aspettative, la Fed taglierà i tassi di altri 25 punti base (0,25%) e, a breve, ciò dovrebbe dare un impulso a produzione e servizi.

Mentre Trump litiga con i numeri

Su inflazione e mercato del lavoro il presidente degli Stati Uniti continua a provare di piegare la Federal Reserve al suo volere. Ha messo le mani sull’ufficio di statistica licenziando a destra e manca e ha messo il suo consigliere economico principale nell’esecutivo della Fed. Cercare di comprendere lo stato di salute dell’economia americana è diventato per i mercati sempre più complesso. La regola degli investitori americani ‘don’t fight the Fed’ che significa di non fare il contrario di quello che dice la Fed è ancora valida se poi la Fed non è indipendente e se la correttezza dei dati non è garantita? Prima debolezza: i grandi investitori stanno valutando come ridurre i rischi e dove spostare i loro soldi.

E ora il dollaro ‘ha paura’

Sul medio termine l’allarme è ancora più evidente e si chiama dollaro, il perno di tutto ciò che gira intorno all’economia americana. Per capire la posta in gioco al tavolo delle trattative in corso tra Usa e Cina è necessario avere una prospettiva storica. Lo spiega bene l’economista Yanis Varoufakis nel libro «Il Minotauro globale», laddove descrive l’entrata della Cina nel Wto nell’anno 2000, quando si fantasticava di un’entità commerciale denominata ‘Chinamerica’. Un quadro perfetto in cui la Cina produceva, gli Usa e il resto del mondo consumavano e tutte le eccedenze generate dall’export cinese venivano investite dalla Cina stessa in titoli di Stato americani e quindi in dollari. Il gioco fondava le sue regole nel lontano 1971, quando a Bretton Woods si passò dalla conversione di pezzi di carta, i dollari, a qualcosa di vero, l’oro, e ai dollari di carta, con altri pezzi di carta. Da qui nacque la tentazione di truccare il gioco stampando dollari e inizia l’enorme fame, sempre di dollari, di cui il Minotauro necessità per sfamarsi.

Il Dragone e il Minotauro

Con l’arrivo della Cina la narrazione degli economisti dell’epoca fu che il Dragone alimentava il Minotauro che però a sua volta avrebbe sfamato tutto il mondo dollaro-centrico. Da allora sappiamo com’è andata, con il debito Usa e con l’attuale suddivisione del Pil mondiale di cui l’America si è accaparrata il 30% del totale. L’ammontare del debito americano e la percentuale di ricchezza sul Pil mondiale rappresentano oggi valori mai raggiunti nella storia dell’economia mondiale. Risultato: il mercato Usa è sopravvalutato per molti protagonisti della finanza, ma anche per la Cina. Per cui gli Stati Uniti arrivano al tavolo delle trattive con un abbassamento progressivo del valore intrinseco del dollaro.

Un fenomeno monetario denominato debasement, in cui i cinesi, come chiunque detenga dollari in quantità, non vogliono restare con una moneta che perde valore. Da qui la loro forza negoziale che a pochi ancora è concesso di prevedere come useranno.

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