https://www.facebook.com/reel/1305360420809971
SONO ENTRATO NELLA STRISCIA DI GAZA, ECCO LE VOCI E I VOLTI
RAFAH – “Guardatemi: ho 19 anni, vorrei andare all’Università ma non posso. Perché? Sono una ragazza per bene. Desidero solo studiare e vivere serenamente. Ma perché tutto questo?”. Fatma indossa un hijab nero, stringe un pacco di cipolle da due chili e mezzo. Ha camminato quasi tre ore da al-Mawasi per arrivare tra queste dune sabbiose alla fine della Striscia di Gaza. Più là c’è l’Egitto, di fronte il mare, tutt’intorno le rovine di una città profanata e di una società rasa al suolo.
“Le bombe possono distruggere gli edifici ma non il sapere” mi dice un’altra adolescente che invece il pacco di cipolle non l’ha ancora conquistato. Attende con pazienza insieme a migliaia di altre donne. Almeno 6 o 7mila secondo i responsabili della Gaza Humanitarian Foundation, la controversa “GHF” chiamata in causa per la morte di centinaia di palestinesi – fino a duemila secondo diverse fonti – durante le distribuzioni di aiuti in cui l’esercito israeliano spara regolarmente per controllare la folla, come è stato ampiamente documentato.
FAME DI SCUOLA, NON SOLO CIPOLLE
Fatma non è l’unica che chiede una scuola in cui studiare. Due 15enni in coda nell’attesa di ritirare il loro pacco di cipolle o patate insistono sull’urgenza di tornare tra i banchi di una classe: “Le bombe possono distruggere gli edifici ma non possono mai distruggere il sapere”. “Vorrei studiare, ora lo facciamo nelle tende ma è faticoso”, aggiunge, mentre tra veli e hijab si moltiplicano le richieste di parlare davanti al microfono della RSI. C’è uno straordinario desiderio di far sentire la propria voce. “Ho bisogno di libertà, ho bisogno di felicità… e di una casa, perchè la mia famiglia non ce l’ha più” mi dice un’altra adolescente. Una signora con un velo colorato chiede – letteralmente – di “mandare al mondo questo messaggio”: che loro, queste donne instancabili, in attesa per ore per le cipolle sufficienti un paio di giorni o poco più, non vogliono questa guerra: perché ha ci ha distrutto, ci ha costretto a spostarci da un luogo all’altro separando le nostre famiglie. Dovremmo stare nelle nostre case, invece di continuare a essere sfollati da un posto all’altro. Chiediamo solo di vivere in pace e sicurezza con le nostre famiglie”.
LE ULTIME BOMBE
Sentiamo alcune esplosioni, poco prima colpi dell’artiglieria israeliana artiglieria partiti probabilmente dall’esterno della Striscia. Gli strascichi vigliacchi di una guerra che ha massacrato oltre 67mila persone, a una manciata di minuti dall’entrata in vigore del cessate-il-fuoco. Abbas lavorava come assistente sociale. Mi dice che “abbiamo dimenticato le sofferenze dei più deboli: orfani, amputati, disabili”. Viene da Rafah, che è sotto occupazione israeliana. È sfollato ad al-Mawasi, sulla spiaggia. Nel campo di tende “la vita è miserabile: non abbiamo fognature né acqua e nemmeno la possibilità di lavarci… indosso questa maglietta da una settimana”. L’ennesima – l’ultima? – voluta di fumo nero nel cielo terso ricorda che Israele si sente in dovere di bombardare fino all’ultimo minuto. “Siamo preoccupati” mi dice Ader. “Non vediamo per ora concretizzarsi questa pace: sul terreno non la si vede ancora”.
Eppure qui per Hamas non c’è più spazio, almeno tra alcune delle giovani donne in attesa delle cipolle. Nemmeno per Fatma: “Basta Hamas ha provocato due anni di guerra. è finito, non lo vogliamo più. E non lo penso solo io, ma lo pensiamo tutti”.
ACCESSO NEGATO AI MEDIA, IL COMPROMESSO DELL’EMBEDDED
Una colonna dolente e paziente fuoriesce dal centro di distribuzione e s’incammina tra sabbia e polvere in direzione di Khan Younis con il bottino preziose di 2 chili e mezzo. Una casa lì accanto sembra esserci accasciata su stessa, demolita dalle bombe israeliane. Decine di ragazzi sono seduti tra le solette incrinate e i muri sghembi che hanno ceduto di lato.
Non solo cipolle. Oggi la GHF distribuisce anche patate. Una gestione che appare ordinata, nonostante i numeri. La Fondazione ci porta in un viaggio “embedded” che prevede l’accettazione di un compromesso: un accesso non indipendente, ma almeno un’opportunità per documentare, vedere e raccogliere le voci dei palestinesi.