
Si ha l’impressione che Gibbon – scrivendo dei Romani – volesse offrire un esempio all’Inghilterra che un impero se lo stava proprio costruendo in quel tempo. Nei secoli caddero comunque anche tanti altri imperi, ma oggi restano nella memoria collettiva centinaia di episodi illuminanti che raccontano spesso con dovizia di particolari come ogni crollo in fondo fosse stato annunciato e come le cause interne siano state altrettanto importanti dei nemici esterni.
Una delle opere più interessanti della storiografia romana degli ultimi secoli dell’impero è certamente la Storia Augusta (Historia Augusta), ovvero una raccolta di biografie degli ultimi imperatori – particolarmente ricche di brevi episodi – che vanno dal saggio e celebrato Adriano al dimenticato Numeriano che regnò meno di un anno. Adriano incarna le virtù romane, governa secondo l’antico principio «parcere subiectis et debellare superbos» (risparmiare i sottomessi e abbattere i prepotenti), è capace di generose elargizioni, ma anche di accurate e scrupolose ispezioni ai magazzini: naturalmente è soprattutto uomo colto, amante delle arti e che conosce la filosofia, il tutto in una rappresentazione ideale del mondo romano arrivata fino ai nostri giorni.
Ad un certo punto però la lunga serie di virtuosi (e meno-virtuosi) si interrompe all’improvviso e salta fuori Antonino Eliogabalo. Perfino il biografo, nelle prime righe, scrive che avrebbe preferito che il nome stesso fosse dimenticato ed Eliogabalo finisce così per rappresentare tutti i vizi e gli eccessi possibili ed immaginabili. A parte alcune discutibili pratiche sessuali dettagliamente descritte, Eliogabalo è la corruzione fatta persona: traffica per proprio interesse vendendo cariche pubbliche, privilegi e riconoscimenti, avido di ogni piacere, trascorre le notti in banchetti smodati. Ancora peggiore si rivela il suo segretario, Aurelio Zotico, che usa la propria posizione per accaparrarsi favori e prebende, tessere trame insidiose e far cadere in disgrazia altri cortigiani.
Molto grave infine, agli occhi degli austeri romani avvezzi alla stoffa ruvida, la sua passione per le vesti di seta che usava una sola volta. Non è sorprendente che, caduto vittima di una congiura militare, il suo corpo sia stato trascinato in una fogna prima di essere gettato nel Tevere.
Quando si parla di fine dell’impero russo il pensiero corre istintivamente alla rivoluzione d’Ottobre, ma in realtà la crisi che portò alla fine dell’impero degli zar aveva radici molto più lontane. Nonostante le considerevoli risorse naturali, l’industria non era lontanamente paragonabile a quella dell’Europa occidentale, ma c’era chi ricavava comunque enormi profitti. Il principe Felix Jusupov ad esempio – che sarebbe passato alla storia come l’anima del complotto per eliminare Grigorj Rasputin – possedeva redditizie miniere in Siberia e i terreni relativi per un’estensione pari a due o tre regioni italiane, ma ben pochi rubli entravano nelle casse dello stato. La sconfitta nella guerra con il Giappone (1905) aveva rappresentato uno shok terribile sia per il paese che per lo zar Nicola in persona. Un paese considerato ‘europeo’ era stato sconfitto da un paese asiatico, cosa indicibile in se.
Per quanto riguarda lo zar gli effetti depressivi furono ancora peggiori, perché – nel corso di una visita effettuata in Giappone una ventina di anni prima quando era ancora principe ereditario – un samurai del seguito aveva attento alla sua vita sfoderando un’affilatissima spada. Episodio increscioso, ma dal quale si dice che Nicola non si fosse più ripreso. Allo scoppio della Grande Guerra seguì un’altra depressione, perché l’imperatore Guglielmo II era in fondo il cugino sul quale aveva sperato per evitare la guerra, scoprendo infine di essere stato ingannato.
Nicola scoprì ben presto che anche l’esercito non era il potente rullo compressore che ci sia attendeva: due armate russe attaccarono i tedeschi in Prussia orientale, ma un soldato su tre era senza fucile. E la reazione dell’imperatore – che si chiese se ‘veramente’ i fucili fossero necessari ai soldati – assomigliò molto al saggio consiglio impartito da Maria Antonietta sulle brioches. Apatico e debole fino all’abdicazione avvenuta nel marzo 1917, fu internato dal governo provvisorio subito dopo.
Sebbene in generale si ritenga che la fine dell’impero britannico sia avvenuta per la perdita delle colonie dopo la Seconda Guerra mondiale, in realtà il periodo di decadenza era iniziato almeno vent’anni prima e cioè a partire dalla fine della guerra precedente. Lo sforzo economico e finanziario aveva letteralmente spogliato l’impero: pochi però se ne resero conto, a cominciare dal fatto che già nell’autunno del 1914 un giorno di guerra costava un milione di sterline, né le risorse potevano definirsi illimitate.
Mai prima del 1914 la Gran Bretagna avrebbe accettato un accordo internazionale sulle marine da guerra, eppure nel 1930 a Londra fu siglato un trattato che poneva dei limiti agli armamenti navali e metteva al bando la costruzione di nuove corazzate oltre le diecimila tonnellate. Era la fine del dominio assoluto sui mari della Royal Navy e come accade spesso i rimpianti si velarono di romantica retorica nel ricordare la lunga ‘tradizione navale’: solo Winston Churchill, con l’ironia che lo contraddistingueva e con notevole disincantato realismo, disse che si trattava solo di «rum, sodomy and the lash» (rum, sodomia frusta).
Lo stesso Churchill però, da Primo Lord dell’Ammiragliato, aveva condotto nel 1913 il piano di riarmo navale prima della Grande Guerra e in quegli anni, convinto delle nuove tecnologie per la difesa dell’impero, sostenne la costruzione di una rete di radar sulla quale pochi avevano fiducia vincendo senza saperlo la battaglia d’Inghiterra. L’atto finale dell’impero britannico e di quello che restava del colonalismo francese si consumò però dopo la guerra di Suez: per fare desistere Francia e Gran Bretagna dall’attacco all’Egitto di Nasser, gli americani provocarono il crollo della sterlina e degli ultimi imperi coloniali.