Srebrenica, un nome con troppe consonanti per noi latini, e quella ‘c’ slava finale che devi leggere zeta. La sua scoperta personale, trent’anni e qualche settimana fa. In un centro di radioamatori che cercavano di superare l’assedio anche telefonico della Sarajevo assediata. Con strane chiamate di aiuto per persone scomparse, che arrivano da quella parte di Bosnia dove c’erano le antiche miniere d’argento. Quel nome difficile da pronunciare, appunto ‘miniera d’argento’ in slavo. Quel luglio del 1995, in una delle tre imbarazzanti isole etniche musulmane in territori militarmente altrui, in quel caso i serbi di Karadzic, che stavano rallentando l’applicazione degli accordi di armistizio tra le tre parti etniche (‘bosniacchi’ musulmani, serbi e croati) di fatto già pattuiti a Dayton, Stati Uniti.
Poco si sapeva, qualcosa si intuiva, molto si temeva. Isole etniche che la politica nazionalista di tutte le parti preferiva ‘perdere militarmente’, per non pagare il prezzo politico di una spartizione concordata per arrivare alla fine del massacro, anche se nel peggior modo possibile.
Da Sarajevo assediata a Pale, con molte difficoltà e rischi, nella tana dell’assediante. Pale, villaggio di montagna che sovrasta Sarajevo, ex centro di villeggiatura delle famiglie benestanti della città, diventata ‘capitale provvisoria’ della ‘Capajebo’ serba di Radovan Karadzic. Ospiti sgraditi armati di telecamera tra i pochi occidentali ammessi e sorvegliati, costretti nel villaggio a fare cronache di guerra in uno scenario bucolico modello svizzero. Ma con voci confuse che si rincorrevano su qualcosa di terribile che era accaduto in una ‘isola musulmana’ di casa. ‘Qualche morto ammazzato’, si temeva allora. Il ‘qualche’ già abbondante di Sarajevo, ma inimmaginabile rispetto a ciò che poi scoprì il mondo. Allora a Pale, ogni giorno a premere su Sonja Karadzic, la figlia del duce locale che sovrintendeva alla stampa ‘ospite’. Nessun permesso e nessuna notizia, salvo il sospettabile arrivo di una troupe televisiva della CNN, che possedeva forti argomenti di convincimento, in contanti.
CNN e Rai in colonna attraverso le strade improvvisate che rappresentavano la nuova viabilità di guerra verso il confine con la Serbia, verso quel fiume Drina che il nobel Ivo Andric aveva raccontato per il suo ponte. Quando finalmente arrivammo a Srebrenica, scoprimmo un ammasso di ruderi, resti di minareti abbattuti e ancora qualche incendio. Il grigio di un cielo arrabbiato e il fumo che era la sola cosa che si muoveva, mentre ovunque ti inseguiva l’odore della morte. Un odore che auguro a tutti voi di non dover annusare mai e che non sono capace, non voglio neppure provare a descrivere. Non erano i morti umani della strage non ancora svelata nella sua indicibile dimensione, corpi umani nascosti mentre marcivano le carcasse animali che avevano accompagnato la vita umana di cui non avevamo più traccia.
Nessuno di noi presenti, gli amici Boban Radovanovic e il cineoperatore Fulvio Gorani che avevo accanto, non sapevamo la dimensione della tragedia che si nascondeva attorno, ma qualcosa sentivamo. Ho ancora memoria di una angoscia mai provata prima, neppure tra i morti uccisi accanto nella Sarajevo bersaglio. E oggi, trent’anni dopo, violo per la prima volta (e in piccola parte) il giuramento che avevo fatto a me stesso di non scrivere mai di cose personali nella tragedia pre-mediatica di Bosnia e Sarajevo. Nessun libro tra i troppi comunque scritti. Quel maledetto giorno, dai ruderi del villaggio scendemmo alla caserma della vergogna, quellia dei Caschi blu olandesi che consegnarono i rifugiati bosniaci ai macellai di Mladic. La spianata dove ora si trova il sacrario degli oltre 8mila uccisi.
La droga giornalistica del dire prima e possibilmente meglio di tutti al mondo a tirarci fuori dall’angoscia che ti chiude la gola. La troupe della CNN con il suo bagaglio di immagini che sceglie la strada del vicino confine con la Serbia per poterle trasmettere, e noi che scegliamo la strada più lunga del ritorno a Sarajevo. La CNN bloccata al confine da una burocrazia malevola e le immagini Rai che prime mostrano al mondo il primo assaggio visivo della tragedia, del genocidio. Piccolo orgoglio personale a nascondere l’angoscia di allora che, nel rivangare, ritorna e si somma alle nuove a tragedie e ai nuovi genocidi che oggi siamo costretti a raccontarvi non più dal campo di battaglia, ma con lo stesso dolore di allora.
E il sospetto, forte ed argomentabile, che quel finale folle sia stati programmato – non nella mostruosa modalità finale – dalla incapacità politica della comunità internazionale che la cancellazione del ‘nodo Srebrenica musulmana’ aveva deciso di delegare a Mladic, un finale non immaginato alla crisi bosniaca di allora. Mentre oggi sta maturando – modalità incognite – la resa dei conti territoriale, politica e di vendetta rimasti aperti da allora, fantasma violento che incombe su futuro di quelle terra e dell’Europa.