
Pechino non soffre tanto e solo le guerre doganali, dichiarate per colpire il suo sistema ‘export-oriented’, ma anche l’assoluta instabilità dei mercati. Una conseguenza diretta delle spericolate, ondivaghe e continue prese di posizione di Trump, che ormai stanno mandando in tilt tutti i ‘trader’ mondiali. E se l’incertezza deprime le aspettative e uccide la propensione all’investimento nelle economie ‘aperte’, immaginate quanto inciderà maggiormente in quelle ‘pianificate’, come la Cina. Dunque, Xi Jinping ha messo le mani avanti e ha deciso che bisognava imprimere una svolta epocale: dare molto più spazio ai consumi interni, preoccupandosi di riequilibrare una domanda che comincia a soffrire sui tradizionali scenari internazionali. Detto fatto. «Per stimolare ulteriormente lo sviluppo economico e migliorare le condizioni di vita delle persone, è essenziale mantenere una certa portata di investimenti», ha affermato mercoledì Li Chunlin, vicepresidente della Commissione nazionale per lo sviluppo e le riforme (NDRC), il principale pianificatore economico del Paese – come riporta il South China Morning Post (SCMP) di Hong Kong- in una conferenza stampa a Pechino. «Il Pil pro capite della Cina ha appena superato la soglia dei 13 mila dollari», ha poi aggiunto Li, facendo capire che nel Paese esiste una massa monetaria ben distribuita, sufficiente per sostenere il rialzo della domanda interna.
Ma se i cittadini cinesi saranno invogliati a spendere di più, dovranno anche trovare prodotti di qualità migliore a prezzi ancora più concorrenziali, grazie a un’economia ‘di scala’. Il progetto è ambizioso e rappresenta (per chi ha studiato le economie centralizzate) una sorta di piccola rivoluzione copernicana. Il prossimo Piano quinquennale è in preparazione (2026-2030) e sarà reso noto nella seconda metà dell’anno. Ma già la direttiva chiara è quella di mettere assieme investimenti e consumi, il che significa chiaramente puntare su industrie leggere, manifatturiere e, comunque, in grado di spingere la domanda interna. Certo, il Governo con l’attuale Piano quinquennale (che scade quest’anno) ha varato e portato avanti anche 102 importanti progetti infrastrutturali, tra cui la ferrovia Sichuan-Tibet, la ferrovia Laos-Cina e il canale Pinglu. «Senza un mercato interno forte, l’economia cinese non sarà stabile e sostenibile», ha dichiarato in conferenza stampa Yuan Da, Segretario della Commissione per lo Sviluppo. «Dal 2021 al 2024, la spesa per consumi finali – che include sia la spesa delle famiglie che quella pubblica – ha contribuito per il 56,2% alla crescita economica annuale della Cina. Gli investimenti hanno rappresentato il 30,2% annuo», ha conclusoYuan. La storica rivoluzione voluta da Xi Jinping per il prossimo Piano quinquennale (il XV), si scontra, però, con l’allarme rosso della situazione debitoria. Lo Stato (cioè, il Partito) ha evitato di intervenire con massicce politiche di stimolo finanziario, come fece nel 2009-10, per evitare di dissanguarsi. Ha preferito congelare o rateizzare la massa debitoria di imprese e famiglie, operando una manovra di ben 1,67 trilioni di dollari.
Gli ‘incidenti’ di percorso più gravi sono stati quello della bolla speculativa edilizia, che ha ridotto sul lastrico milioni di cinesi, e quello dei debiti delle amministrazioni locali. Questa ultima crisi, in effetti, è connaturata a tutti i sistemi dirigistici, dove la corruzione dilaga mano a mano che dal vertice si procede verso la base. A ogni passaggio, il ‘piano’ o il documento interessato corre il rischio di caricarsi di ‘esternalità’. Il risultato finale è che più si va in periferia e più aumentano i problemi. In Cina, da questo punto di vista, la situazione resta esplosiva. Anche perché gli indicatori non sorridono. Non basta agitare trionfalisticamente il feticcio dell’aumento del 5 per cento del Prodotto interno lordo, se poi hai un deficit pubblico del 5,9 per cento su Pil e sei praticamente in deflazione (prezzi fermi). Ma Xi è stato chiaro: le statistiche non sono tutto. L’aumento del Pil va sempre interpretato, perché, paradossalmente, si può avere una «crescita senza sviluppo». Scrive il SCMP: «Dall’aumento dei redditi dei lavoratori al miglioramento dell’ambiente dei consumi, la strategia politica copre una serie di questioni di fondo che dovranno essere affrontate se la Cina intende indirizzare la sua economia verso un modello di crescita guidato dai consumi. Il piano in 30 punti, pubblicato congiuntamente dai massimi organi del governo cinese e dal Partito comunista al potere, per la prima volta traccia un collegamento diretto tra consumi e questioni quali l’accesso a servizi di assistenza all’infanzia a prezzi accessibili e l’annosa crisi immobiliare del Paese».
Il pacchetto di misure approvato vuole «rendere le persone più sicure di spendere e più stabili nelle loro aspettative», ha ribadito Li Chunlin. L’articolato progetto si prefigge di aumentare i salari e ridurre gli oneri finanziari delle famiglie. E inoltre punta a rafforzare la fiducia dei consumatori, cercando di massimizzare la loro propensione al consumo. Con il nuovo ‘Piano dei 30 punti’, le autorità si impegnano a promuovere la «crescita ragionevole dei redditi dei lavoratori, incrementando l’occupazione, aumentando il salario minimo e intensificando l’applicazione del sistema di ferie annuali retribuite». In conclusione, è difficile, per gli occidentali, comprendere (e accettare) tutti i meccanismi che stanno alla base del miracolo economico cinese. Certamente, siamo davanti a un sistema in cui i rapporti di produzione sono gestiti, più o meno direttamente, dallo Stato. Quella cinese resta, sostanzialmente, un’economia ‘pianificata’, dove programmi elaborati su base quinquennale dal Partito-Governo, vengono sviluppati fissando degli obiettivi prioritari.
Nonostante la Cina spenda in armamenti 300 miliardi di dollari, questa somma rappresenta solo l’1,7 per cento del suo Prodotto interno lordo. Cioè, in proporzione, meno di quasi tutti gli Stati europei. Eppure, pensa di destinare ai consumi per le famiglie (a partire da subito) una fetta ancora maggiore di ricchezza, la cui spesa media per ora si attesta sul 40 per cento del Pil. Trump ha fatto il miracolo: è riuscito, con la sua guerra doganale, a rivoluzionare e a far diventare più ‘umani’ persino i sistemi a economia pianificata.