
Anche prima del greco Tucidide, considerato il padre della storia, esistevano tradimento e traditori, ma si deve ad una sua osservazione il collegamento di questi comportamenti allo stato di guerra e alle parole degli uomini. In precedenza il più famoso traditore greco era stato Efialte di Trachis, un pastore descritto da Erodoto che aveva indicato ai Persiani il cammino tra le montagne per attaccare i Trecento di Leonida, ma di cui si conosce poco. In uno dei momenti peggiori della guerra del Peloponneso, che ormai aveva coinvolto tutte le città greche suscitando rivolte interne, Tucidide scrive esattamente: «Le parole stanno cambiando significato» (III,82).
L’audacia irresponsabile era diventata un coraggio amichevole; la prudenza degli uomini di stato era definita pavidità o codardia; un gesto estremo o sconsiderato veniva interpretato come esemplare valore sul campo. Ogni malcontento, anche piccolo, diventava motivo di ribellione al quale credevano tutti e diventava sospetto chi invitava invece a verificare o a comportarsi con prudenza. Anche gli ambiti familiari erano turbati da questa spirale di violenta confusione, alla quale non si sottraevano nemmeno i riti religiosi.
Soprattutto – come osserva Tucidide – anche il più solenne giuramento si era trasformato in un espediente astuto per guadagnare tempo od ordire consapevolmente un inganno. Non esisteva insomma più alcun freno e le città greche si avviavano in fretta verso una catastrofe che tuttavia dichiaravano di voler evitare. E sempre grazie allo storico greco il traditore più noto del suo tempo fu l’ateniese Alcibiade, accusato di essere in contatto con gli Spartani.
Dubbio d’attualità: chi in Europa è più in contatto con gli Trumpiani?
Non è casuale che Dante ponga nella parte più profonda dell’Inferno i traditori, immersi in un lago ghiacciato e nello stesso tempo fitto di personaggi che interloquiscono con il poeta e tra loro con rabbia. Il tradimento, che rappresenta la degradazione dell’uomo, merita la pena del ghiaccio, poichè essi hanno agito per proprio interesse con freddezza d’animo, con premeditazione e spietatamente.
Dante li divide in tre categorie: i traditori dei familiari, del proprio paese e quelli di una parte politica cui appartenevano. Poche le parole pronunciate da questi dannati che piuttosto inveiscono e litigano tra loro ed esprimono feroci desideri di vendetta, ma quasi nessun pentimento. Solo nei versi successivi la narrazione dantesca raggiunge il suo apice universalmente noto nella vicenda di Ugolino e del suo carceriere arcivescovo Ruggieri.
Ugolino era già passato con disinvoltura da un campo all’altro della fazione guelfa, ma la sua prima disgrazia avvenne dopo la battaglia della Meloria, quando fu accusato di tradimento per la sua azione di comando controversa che provocò la sconfitta da parte dei Genovesi. Sebbene l’accusa non portasse ad alcuna destituzione, nel corso delle trattative tra Pisa, Genova e Firenze, fu nuovamente accusato di corruzione e la fine fu l’incarcerazione su ordine dell’arcivescovo. Ugolino non chiarisce se avvenne o meno il suo tradimento in battaglia e in politica – e forse è anche il pensiero di Dante –, ma lancia un’invettiva nei confronti del suo crudele carceriere, che non bisogna dimenticare era un religioso. La Chiesa stessa del resto, pur condannando a suon di scomuniche determinati comportamenti, in altri casi chiudeva un occhio. Anche due.
Nel Rinascimento l’atto del tradimento fu assai frequente e grandi artisti ci hanno lasciato numerosi ritratti di illustri personaggi conservati in gallerie e musei, mentre a Firenze si esponevano al contrario raffigurazioni del traditore allo scopo di esecrarne la memoria e affermare la vittoria della giusizia.
Al palazzo del Podestà (oggi Bargello) perfino Sandro Botticelli fu incaricato di ritrarre i traditori della città: una volta giustiziati, erano appesi per un piede, o semplicemente lasciati penzolare dal cappio, come testimonia un disegno di Leonardo dopo le esecuzioni seguite alla repressione della congiura de’ Pazzi. Andrea del Castagno era talmente famoso come fotografo di cronaca nera da essere soprannominato «Andreino degli impiccati», nomignolo che detestava tanto da negare di essere l’autore dei disegni e da indicare al suo posto anonimi garzoni di bottega.
Eppure Niccolò Machiavelli fece del tradimento un’arte sottile, un mezzo come un altro per raggiungere un obiettivo politico. Figure come Cesare Borgia o lo stesso Lorenzo de Medici, che tradì il suo stesso cugino, divennero i modelli del nuovo modo governare e conservare il potere.
Ancora più abili furono però i veneziani: poche le esecuzioni capitali, anche se il doge traditore Faliero fu decapitato, perché era meglio far lavorare la paura facendo semplicemente scomparire personaggi scomodi e raccogliendo informazioni con un capillare sistema di spie che resta ancora unico al mondo.
Di fronte a secoli di grandi tradimenti raccontati da storici o immortalati da artisti, certi comportamenti attuali sembrano alla fine solo gesti barbarici.