Gli Usa fanno le guerre e la Cina avanza nel Pacifico

«Un Paese prospererà se avrà un buon controllo sugli oceani e crollerà se li abbandonerà». Non sono parole del contrammiraglio Alfred Mahan, padre della moderna ‘Grand strategy’ navale. A pronunciarle, invece, è stato di recente il leader cinese, Xi Jinping.

La nuova grande flotta cinese

Una ‘esortazione’, quella di Xi Jinping rivolta al Partito, che giunge in un momento particolare, nel quale Pechino ha lanciato un massiccio programma poliennale di sviluppo della sua flotta. Un rafforzamento ormai straripante, che toglie il sonno al Pentagono e che spiega le spinte per il disimpegno in Ucraina, emerse a Washington. Oltre a far comprendere i dissensi (diffusi), per il fatto che gli Stati Uniti rischiano di rimanere invischiati nella carta moschicida del Medio Oriente e del Golfo Persico. Insomma, gli americani hanno la coperta corta. E questo si sta rivelando particolarmente pericoloso nell’Indo-Pacifico, dove la crescita della Cina ricorda molto da vicino quella del Giappone, prima della Seconda guerra mondiale. D’altro canto, i cinesi non fanno niente per caso e mentre il loro “competitor” fa il poliziotto globale, loro colmano i vuoti che si creano.

Troppi ‘fronti strategici’ Usa

In questo senso fanno riflettere due notizie: la prima riguarda lo spostamento «per necessità» della portaerei Nimitz, dalle acque di Taiwan a quelle prospicienti lo Stretto di Hormuz (Iran). La seconda, racconta le reazioni di allarme dello Stato maggiore dell’US Navy alla comparsa di una flotta da combattimento cinese in pieno Oceano Pacifico, assai lontano dalla costa continentale. «Perché il viaggio di una portaerei statunitense in Medio Oriente sta creando scompiglio a Taiwan», ha titolato il South China Morning Post di Hong Kong, spiegando che Taiwan «dipende dalla presenza militare degli Stati Uniti per fungere da baluardo contro Pechino, e che l’America potrebbe trovarsi in difficoltà in un mondo volatile. Il Pentagono – prosegue il giornale – ha dirottato un gruppo d’attacco di una portaerei dall’Indo-Pacifico al Medio Oriente, segnando la quarta manovra del genere da parte della Marina statunitense in meno di un anno e suscitando ammonimenti a Taiwan. Gli analisti hanno affermato – dice inoltre SCMP – che gli Stati Uniti dovranno trovare il modo di bilanciare le esigenze operative immediate in Medio Oriente con gli interessi strategici a lungo termine nell’Indo-Pacifico, poiché i conflitti prolungati e instabili richiedono maggiori risorse militari americane».

Flotta oceanica cinese entro il 2035

Certo, non si parla anche di Ucraina, per ovvie ragioni di coerenza strategica e diplomatica. Ma il ragionamento è cristallino ed è anche motivato, come si diceva prima, da una visibile espansione della presenza navale di Pechino in tutto l’ampio quadrante dell’Indo-Pacifico. E qui torniamo a quanto vaticinava Xi Jinping, cioè alla forza del sistema-Paese cinese che si esprime, in pratica, non solo attraverso il suo gigantesco apparato produttivo, ma anche col braccio armato di una flotta che difenda le rotte commerciali. E se si espandono i traffici, si allungano e si diversificano le rotte, fino a quando, alla fine, non compaiono le navi cinesi dove meno te le aspetti. Sempre il SCMP ci avvisa di un vero ‘scoop’ strategico, che sta seminando il panico negli Alti comandi Usa, dal Giappone alle Hawaii, e che è quasi passato sotto silenzio. Perché sembra solo roba riservata agli specialisti. Dunque, scrive l’informatissimo quotidiano, «la Marina cinese sta oltrepassando le catene di isole strategiche che per decenni hanno segnato i confini difensivi per gli Stati Uniti e i loro alleati nel Pacifico occidentale. Lo schieramento di due gruppi di portaerei di Pechino nelle acque aperte dell’Oceano Pacifico, dalla fine di maggio, ha evidenziato un progresso fondamentale nelle ambizioni cinesi di diventare una flotta oceanica entro il 2035».

La rincorsa navale statunitense

Detto questo, secondo gli specialisti, gli americani per fronteggiare la minaccia saranno costretti a drenare squadre navali da altre aree del pianeta, a cominciare dall’Atlantico e dal Mediterraneo. Basterà? Ai ritmi attuali probabilmente no. Anche perché ormai Xi Jinping fa sul serio, vuole Taiwan e l’applicazione del ‘diritto internazionale a geometria variabile fatta dall’Occidente’, in molte delle ultime crisi, gli dà una mano. In ogni caso, il vecchio leader ha già deciso da un pezzo di spezzare le ‘tre catene delle isole’ pensate come linee rosse da Foster Dulles negli Anni ’50. Per chiarire di cosa stiamo parlando va tenuto conto che, secondo la scheda del South China Morning Post, la prima catena di isole si estende lungo la costa dell’Asia orientale, dalle Isole Curili, passando per Giappone, Taiwan e Filippine, fino al Borneo. Questa catena delimita i mari più vicini alla Cina continentale rispetto al Pacifico. La seconda (il vero limes invalicabile) si dipana più a est e comprende la principale base statunitense di Guam. Si estende attraverso le Isole Marianne fino a Palau e alla Nuova Guinea. La terza catena di isole è convenzionale, e va dalle Aleutine alle Hawaii, fino all’Oceania. Dovessero arrivare da queste parti, le navi cinesi, allora sarebbe una vera provocazione bellica.

Oltre lo Stretto di Malacca

La novità (sgradevole) per Washington consiste nel fatto che è la prima volta che una portaerei cinese oltrepassa la seconda catena di isole. Ma perché Pechino reagisce in modo sempre più aggressivo, proprio adesso, a questa «Strategia delle tre catene» che, in fondo, gli Stati Uniti applicano costantemente da tre quarti di secolo? La risposta la danno gli analisti del Morning Post cinese: «La Cina percepisce le catene come una forma di contenimento guidata dagli Stati Uniti, che limita i suoi movimenti navali e la sua sicurezza economica. Oltre l’80 percento delle importazioni del suo petrolio -dice SCMP- passa attraverso punti di strozzatura come lo Stretto di Malacca, potenzialmente esposti al blocco in caso di conflitto. Rompere questo contenimento è parte integrante della strategia navale di Pechino. Occorre dire che, dal punto di vista operativo, la capacità della Marina dell’Esercito Popolare di Liberazione di oltrepassare le catene di isole complicherebbe gli interventi statunitensi, soprattutto attorno a Taiwan, allungando le linee di rifornimento e mettendo a repentaglio risorse strategiche come Guam».

Lo scontro inevitabile

Tirando le somme: il problema-Taiwan ne maschera uno ancora più grosso, che in un qualche modo (con le dovute differenze) ricorda l’ascesa del Giappone negli anni Trenta, assetato di energia e materie prime. La Cina ha un progetto planetario di lungo periodo. Essenzialmente economico. Ha i suoi modelli di competizione e non accetta forzature americane, che sotto la scorza dei ‘diritti’ mascherano invece quasi sempre ‘interessi particolari’. Purtroppo lo scontro appare inevitabile.

 

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