
Parliamo dell’Indo-Pacifico e della Cina, cioè del vero ‘nemico pubblico numero uno’ dell’America. E non certo o, almeno, non solo per la forza militare, perché con l’accoppiata risorse-tecnologia che si ritrovano, gli States potrebbero fare la guerra pure ai marziani. No, la Cina toglie il sonno ai Presidenti Usa (tutti) da quando si è miracolosamente organizzata con un modello che sembra quasi un paradosso: una specie di «capitalismo di Stato. Un immenso formicaio produttivo che, grazie a una ‘economia di scala’ (enormi volumi di produzione) ha potuto annacquare il suo discutibile livello qualitativo.
Alla fine, poi, i consumatori mondiali (che sono in definitiva quelli che comandano) hanno premiato i prezzi stracciati (cinesi) e si sono raffreddati verso i prodotti occidentali, migliori ma carissimi. In America, questo ha voluto dire ritrovarsi con una bilancia commerciale di colore rosso sangue. Mettete nel discorso pure il contenzioso per Taiwan (dove sarebbe troppo lungo spiegare cosa gli Stati Uniti difendano, in punta di diritto) e si può capire perché il Mar Cinese meridionale, in quanto a tensioni, non abbia proprio niente da invidiare al Golfo Persico. Senza dimenticare che al confronto tra Usa e Cina si affiancano altri conflitti d’area, che vedono protagonisti diversi altri Paesi, come le Filippine, l’India, il Pakistan, le due Coree e il Giappone.
La domanda che gli analisti devono porsi adesso, dopo la ‘guerra dei 12 giorni’ nel Golfo Persico, è se quest’evento ha spostato la percezione che la Cina ha della «nuova America di Trump e dell’Europa che gli va a rimorchio». Non solo. Ma la dimostrazione di «Shock and awe» (che potremmo tradurre con ‘colpisci duro e lascia frastornato’) adottata dagli Usa, al tempo che fu, contro l’Irak di Saddam Hussein, e reiterata contro l’Iran, ha avuto un effetto deterrente su Pechino? Alla Casa Bianca pensano di si. Questi ragionamenti, però, hanno un solo difetto: nascono nella testa di persone che hanno una cultura e una logica tutte occidentali. Ed è invece possibile che un’azione molto rischiosa e comunque ‘fuorilegge’ (almeno se ci riferiamo alle istituzioni di diritto internazionale) come il bombardamento dei B-2 a Fordow, abbia sollevato altre valutazioni, nei ‘pensatoi’ che contribuiscono a modellare la politica estera di Xi Jinping.
Pare sia proprio così. Il South China Morning Post di Hong Kong, ha fatto un report, sulle valutazioni che gli strateghi di Pechino danno delle ‘novità’ che arrivano da Washington, in tema di dottrina diplomatica. E le conclusioni non sono incoraggianti. «Secondo gli analisti cinesi, sotto la guida di Donald Trump – scrive Laura Zhou del SCMP – il rischio che scoppi un conflitto militare globale è maggiore, con gli Stati Uniti più propensi a essere coinvolti in guerre che riguardano nazioni più piccole o alleati. La valutazione – prosegue il giornale – è stata fatta dopo che, lo scorso fine settimana, gli Stati Uniti si sono uniti alla guerra di Israele contro l’Iran, portando a termine attacchi militari su tre siti nucleari nella Repubblica Islamica». In realtà, la Cina ha rapporti strettissimi con Teheran, da cui importa grandi quantità di greggio. Due anni fa, Xi è intervenuto in prima persona, insinuandosi tra Biden e il principe saudita bin Salman, arrivando a mediare il ristabilimento delle relazioni diplomatiche tra Arabia e Iran.
Un clamoroso successo e un vero smacco per gli Stati Uniti. Che risposero, scordandosi di tutti gli scrupoli sui diritti umani e s’impegnarono vendere a Riad una montagna di armi di tutti i tipi. Con contratti stramiliardari, che ora Trump sta portando avanti. A quel prezzo, diventava difficile per la Cina mantenere la gara con gli americani per cercare di mettere il naso nel Golfo. E con le condizioni che si sono create, con l’Iran messo in ginocchio dagli israeliani, la Cina ha dovuto fare un passo indietto. Ma riflette. «L’attuale mandato di Trump non mira a stabilire un nuovo ordine internazionale, bensì ad accelerare il trend di deglobalizzazione iniziato durante la sua precedente presidenza», afferma Yan Xuetong, esperto di politica estera e professore di relazioni internazionali presso l’Università di Tsinghua, citato dal SCMP. «Il risultato è un aumento dei conflitti militari e una maggiore incertezza nella comunità internazionale – ha aggiunto Yan – perché, mentre la guerra tra Mosca e Kiev non si è estesa oltre i confini russi, quella tra Israele e Gaza ha toccato anche il Libano, la Siria, gli Houthi nello Yemen e ora l’Iran».
Più in generale, scrive il SCMP, gli analisti cinesi si sono detti convinti che, in America, «l’intervento di Trump nella guerra tra Israele e Iran ha fatto sorgere il timore che gli Stati Uniti vengano coinvolti in un altro conflitto in Medio Oriente, che potrebbe sottrarre risorse a un’altra battaglia: la rivalità geopolitica con la Cina, in particolare nell’Indo-Pacifico». In effetti, a Pechino osservano con attenzione quello che invece, in Europa, politici e commentatori hanno fatto notare solo in sporadiche occasioni: l’infuocato dibattito, quasi la rissa, che ha accompagnato le ondivaghe prese di posizione della Casa Bianca sulla crisi iraniana. Wu Xinbo, preside dell’Istituto di studi internazionali all’Università Fudan di Shanghai, intervistato dal SCMP ha affermato che la Cina dovrebbe stare attenta al rischio che gli Stati Uniti vengano trascinati in una guerra a causa dei loro alleati». Torna in ballo il ‘decision making process’: chi fa la politica estera a Washington e quanto possono essere affidabili le sue linee d’indirizzo, alla prova dei fatti? Per gli esperti di Pechino è questa la risposta chiave. «Trump non ha spiegato perché avesse abbandonato la sua precedente riluttanza a portare gli Stati Uniti in uno scontro militare diretto con l’Iran», ha sostenuto Wu – ipotizzando, che Israele abbia probabilmente svolto un ruolo significativo.
«Quindi – ha fatto notare lo studioso – tra Cina e Stati Uniti, in realtà abbiamo più terze parti, come Filippine e Giappone, che sono alleati degli Stati Uniti e hanno controversie con la Cina. In realtà la Cina non ha alcun conflitto diretto con gli Stati Uniti, ma solitamente sono i suoi alleati a poterli trascinare gli nei guai». L’accademico ha inoltre affermato che le grandi potenze come gli Stati Uniti «dovrebbero stare attente a non farsi trascinare in guerre da Paesi più piccoli». Un’ultima frecciata, il politologo cinese l’ha voluta rivolgere agli Usa, e all’Occidente in generale, sulla questione del nucleare iraniano.
«L’attacco di impianti atomici sotto la tutela dell’organismo di controllo nucleare delle Nazioni Unite ha inviato un messaggio pericoloso agli stati non nucleari. Il comportamento degli Stati Uniti potrebbe indurre gli Stati non nucleari a chiedersi se i loro impianti potrebbero essere presi di mira – ha detto Yan – ipotizzando che un numero maggiore di Paesi potrebbe considerare le armi nucleari come necessarie, e questo sarebbe molto negativo per la non proliferazione globale». Insomma, se bombardando gli ayatollah Trump pensava di intimorire i cinesi, forse ha sbagliato i calcoli. A Pechino lo (e ci) aspettano al varco.