Petrolio+inflazione nell’azzardo contro l’Iran

Prezzo del petrolio e inflazione, Israele e Medio Oriente, i rischi sul mondo da oltre mezzo secolo. Un rapporto bi-direzionale che unisce il cuore nero che pompa energia nelle vene dell’industria mondiale e il fuoco invisibile che consuma silenziosamente il potere d’acquisto.

Attacco all’Iran e all’economia globale

Il prezzo del petrolio è schizzato verso l’alto ma per ora è ben sotto agli 82 dollari a barile di un anno fa e quindi al momento non contribuisce a un’impennata del tasso di inflazione annuale.  Tutto dipenderà dagli sviluppi dello scontro militare in atto, «una guerra che si poteva evitare» come scrive il Financial Times. Perché – spiega il quotidiano finanziario – «non è da escludere nella reazione di Teheran un blocco sullo stretto di Hormuz». Da lì passa ogni giorno circa un quinto del consumo totale di petrolio del mondo, ovvero circa 18-19 milioni di barili di condensato e carburante. Ogni interruzione, anche momentanea, può avere impatti globali sui prezzi e sull’approvvigionamento energetico.

Esiste una sorta di ‘no fly zone’ per i prezzi del petrolio e che gli analisti hanno fissato a 100 dollari il barile. Il rischio di toccare quel prezzo è reale, hanno dichiarato a Reuters alcuni tra i maggiori operatori del mercato delle materie prime.

Trump e Putin all’incasso

Per il momento si avvantaggiano della situazione la Russia e il petrolio del Texas e americano in generale estratto con il metodo dell’estrazione da roccia (shale oil).  Il ritorno in forza sul mercato di questi produttori contribuirà, per adesso, a contenere l’impennata delle quotazioni del barile. Intanto nella corsa degli investitori a mettere soldi al sicuro, sono stati acquistati titoli del Tesoro Usa, facendone scendere il rendimento dei decennali al 4,31%, il minimo degli ultimi mesi. I rendimenti obbligazionari si muovono inversamente ai prezzi. Il rendimento dei titoli di Stato tedeschi a 10 anni ha toccato il livello più basso dall’inizio di marzo, attestandosi intorno al 2,42%.  «La risposta definitiva dei mercati obbligazionari alla geopolitica dipenderà da quanto sarà rapido l’aumento dei prezzi dell’energia», ha affermato Charu Chanana, responsabile della strategia di investimento della danese Bg Saxo.  Sotto le macerie fumanti degli edifici e delle infrastrutture iraniane cova un pericolo economico ancora più grosso: è l’inflazione.

Inflazione tra dazi di Trump e bombe di Israele

Prima dell’attacco all’Iran e quindi al rischio prezzi petrolio, c’erano uno scenario inflazionistico dominato dall’incertezza sull’applicazione dei dazi. Le leggi economiche parlano chiaro e sappiamo quindi che le tariffe sulle merci innescano la pressione sui prezzi. Malgrado le previsioni di tanti economisti e centri studi, i dati di maggio l’hanno confermata ancora bassa. Le ragioni sono principalmente due e c’entra anche il petrolio.

Primo, domanda debole

Se le persone non spendono abbastanza significa che le aziende anche a fronte di maggiori costi dovuti ai dazi non li scaricano sui consumatori, altrimenti rischierebbero di non vendere i propri prodotti. Secondo, molte aziende si erano mosse con anticipo facendo grandi scorte di materiali prima dell’entrata in vigore dei dazi. Finché i magazzini sono pieni non serve aumentare i prezzi. A fronte di una domanda debole, ma non da recessione, il bilanciamento tra domanda e offerta del prezzo del petrolio ha mantenuto i costi di produzione ad un livello di protezione da forti effetti inflattivi.

I 3 mesi del mercante Trump

Ma sappiamo anche che gli aumenti dei prezzi dovuti ai dazi hanno un periodo di incubazione di circa 3 mesi. Periodo nel quale Trump si sta giocando le diverse trattative commerciali, il cui esito è ancora incerto.  Sono però già stati rilevati segnali sull’aumento per il costo dei trasporti e dei noli marittimi e questo fa pensare che il ritardo sull’aumento dell’inflazione potrebbe manifestarsi con i dati di giugno o luglio. Ciò che tutti si aspettano è che nella seconda metà dell’anno le aziende potrebbero cominciare a trasferire gli aumenti sulle vendite. Le previsioni fino a prima dell’attacco all’Iran erano di una crescita dell’inflazione in Usa al 3%, un aumento assai problematico (oggi è al 2,4%) , ma non drammatico.

‘Inflazione da costi’, politica monetaria e due pessimi amici

Adesso però lo scenario presenta un rischio concreto e determinante a creare quella ‘inflazione da costi’, che determina l’aumento del costo delle materie prime utilizzate in vari settori produttivi. Un elemento aggiuntivo alla dinamica inflattiva che innescano i dazi. Se l’effetto Iran non sarà transitorio seguiranno conseguenze anche sulla politica monetaria, le banche centrali non taglieranno di certo i tassi. Trump farà di tutto per non andare in recessione. Ma al momento deve fare i conti con l’amico Netanyahu e con i brandelli della diplomazia iraniana con cui stava negoziando. Quel che si dice una pessima compagnia.

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