
Il capo del governo inglese dà l’impressione di interpretare due parti in commedia. ‘Europeista’ (o un suo surrogato) quando si parla di Ucraina e, molto ovviamente, di riarmo generalizzato fino ai denti. Più ‘trumpiano’, invece, se l’attenzione si sposta dalla geopolitica delle bombarde, alla più prosaica (e mangereccia) ‘dottrina’ del commercio internazionale. Insomma, se c’è in ballo la storia, il leone di sua maestà britannica ruggisce. Però, se si passa al ‘business’, il gattone fa le fusa e aspetta i croccantini. Che vogliamo dire? Semplice, Sir Keir è stato il primo a rompere il fronte della solidarietà europea, e a correre da Trump, all’alba dei tempi. Cioè, quando ancora i dazi doganali sembravano una cosa seria e Starmer, come nella «catena di Sant’Antonio, pensava di aver compreso che «il primo ad entrare, avrebbe vinto». Beh, non aveva capito niente.
Gli sarebbe bastato leggere qualcosa in più su Scott Bessent (Segrrtario Usa al Tesoro) e su Howard Lutnick (Commercio), per intuire che la cosa più importante di Trump, non è ciò che dice oggi, ma quello che penserà domani. E che i dazi sono solo la proiezione psicanalitica di una nevrosi ossessiva, che molti di noi forse ricordano di avere già osservato: «Il pallone è mio e faccio giocare chi voglio io». Niente macroeconomie, partite doppie o teorie marginalistiche, insomma. Tutto più terra terra. Altro che visione protezionistica, che altera improbabili catene di approvvigionamento delle risorse. E via blablabla di questo passo. No, Starmet ha fatto né più e né meno quello che hanno fatto gli inglesi per secoli. Pensare per loro. Ha siglato l’intesa al 10% con Trump, credendo di risolvere i suoi problemi, che però sono appena cominciati.
Martin Wolf, sull’autorevole Financial Times l’ha fatto (indirettamente) nero, scrivendo parole di fuoco sul fallimento della politica di sostegno all’export britannico. «Gli accordi conclusi di recente – afferma il FT – non fanno alcuna differenza, la nostra situazione resta critica e le esportazioni sono un freno netto alla crescita». D’altronde basta guardare i numeri: nell’ultimo quinquennio, l’export è cresciuto mediamente solo dello 0,3% all’anno. Ma perché Starmer ha cercato l’accordo individuale con Trump, ‘tradendo’ una possibile partnership con l’Unione Europea? Il nuovo Premier, dopo avere stravinto le elezioni dello scorso anno, può contare su una maggioranza oceanica a Westminster, ma le tanto auspicate riforme sociali, da lui contrabbandato in campagna elettorale, finora sono rimaste chiuse in un cassetto. Anzi, vista la situazione di scasso dei conti pubblici (e di transitivo crollo nella qualità dei servizi erogati), a Downing Street si sono armati di forbici, per andare all’assalto della ‘spesa improduttiva’.
Contemporaneamente, taglia di qua e taglia di là, hanno anche pensato bene di aumentare le tasse. Perché c’erano delle ‘emergenze’. Il riarmo. Non solo quello, per carità, perché anche le mitiche (una volta) British Railways ora cadono a pezzi, mentre negli ospedali del National Health Service, spesso si entra ‘sani’ ma si esce malati. Insomma, ci siamo capiti. Il povero Starmer, erede di una secolare e gloriosa tradizione britannica operaista, pronta a lottare per le fasce più deboli della popolazione, sta seguendo la nemesi di molti leader di sinistra: andare al potere e fare ‘politiche di destra’, perché il Paese è al gancio. I conservatori, da Boris Johnson a Rishi Sunak, passando per Liz Truss gli hanno mollato una vera patata bollente, dopo i disastri che hanno combinato con le finanze dello Stato. E Sir Keir ha vinto le elezioni, proprio per questa percezione di cattiva governance, che assieme alla crisi economica ‘importata’ è diventata una miscela esplosiva. Starmer adesso è praticamente ingessato. Le scadenze finanziarie incalzano, gli elettori cominciano a rivoltarsi contro e a completare tutto, ci si mette pure Trump.
Cerchiamo di capire perché il leader britannico è finito in un ginepraio. Il debito pubblico del Regno Unito è intorno al 100% del Pil. Troppo, anche se ci sono Stati (come l’Italia) che superano abbondantemente questa soglia. Il problema è, però, il trend, cioè, lo sviluppo in prospettiva. In questo senso, ha fatto rumore uno studio dell’anno scorso, fatto dall’OBR (Office for Budget Responsibility), l’organismo di controllo che lavora assieme al Cancelliere dello Scacchiere (Tesoro), che parlava di una degenerazione dei conti nel lungo periodo, fino al 270% del Pil. Una situazione insostenibile, alla quale bisognava immediatamente porre riparo. E così torniamo alla sinistra, «forzata a fare politiche di destra». Anche lo Stato ha le sue ‘bollette’, e sono gli interessi sul debito da pagare a scadenza. Pena il default. Ecco perché Starmer ha tagliato dove non doveva tagliare, cioè sussidi per i pensionati e per gli invalidi. Oltre ad altri ritocchi del welfare. Ed ecco perché i ‘populisti’ di Reform UK lo hanno letteralmente (ed elettoralmente) massacrato alle recenti Comunali, che hanno segnato una pesante sconfitta per il Labor. La base del partito ha reagito rivoltandosi e ora Downing Street ‘sta riflettendo’.
I pensionati tagliati fuori dai sussidi per il riscaldamento invernale sono stati più di 10 milioni, con la ‘brillante idea’ della Ministra Rachel Reeves. Tuttavia, non si capisce perché, a fronte del buco di 22 miliardi di sterline (di cui sono accusati i Conservatori), Keir Starmer debba aumentare le spese militari lasciando al freddo più di 10 milioni di pensionati britannici. I soldi risparmiati non saranno spesi in servizi sociali, ma in carri armati e missili. Nel 2024 il Regno Unito ha portato la sua spesa militare al 2,5% del Pil, occupando attualmente il sesto posto assoluto nella classifica mondiale, secondo la classifica Sipri, con oltre 81 miliardi di dollari. Ma ora che la base del Labour è in rivolta, forse Starmer dovrà garantire un paio di cannoni in meno e qualche stufa in più.