«La fabbrica del mondo»

La fabbrica del mondo, è la metafora entrata di diritto nel vocabolario dell’economia globale. Suona bene, ma si sta trasformando nel rumore assordante di una sirena d’allarme perché un diluvio di prodotti Made in China rischia di abbattersi sull’Europa.

Merci cinesi in Europa

Ad aprile, il surplus di merci fabbricate in Cina e spedite in Europa ha toccato il massimo storico, come certifica l’Ufficio Nazionale di Statistica cinese. Negli Stati Uniti il rapporto tra scorte e vendite al dettaglio è oggi inferiore al valore immediatamente precedente il periodo del Covid. Ciò significa che, se diminuiscono gli arrivi di merci dalla Cina, i commercianti americani si troveranno rapidamente con gli scaffali vuoti. NBS, l’ufficio statistico di Pechino ha rilevato che la produzione industriale di aprile è cresciuta del 6,1%, più del 5,7% previsto dagli analisti di Bloomberg.

Dati economici e crisi immobiliare

Sui dati statistici forniti da Pechino regna sempre un certo scetticismo. Sappiamo che i dati si trasformano in informazioni e quanto siano reali quelli cinesi è più difficile certificarlo perché gli enti esterni allo Stato non ne hanno facile accesso. Due aree critiche, in particolare, sottolineano le preoccupazioni: la crisi immobiliare e l’occupazione. Problema case: ad aprile i prezzi delle nuove case in 70 città (escluse le case sovvenzionate dal governo) sono diminuiti dello 0,12% rispetto a marzo (0,08%). I prezzi degli immobili di seconda mano sono diminuiti dello 0,41%, rispetto al calo dello 0,23% registrato il mese precedente. Ogni famiglia della Repubblica popolare sembra aver perso in media 60 mila dollari. Il Wall Street Journal riporta stime secondo cui la distruzione di valore è stata di 18 mila miliardi di dollari, una cifra tre volte superiore a quella della crisi dei mutui subprime in America.

Occupazione

Occupazione: il Corriere della Sera ha riportato le dichiarazioni di Yasheng Huang, un economista cinese del MIT (Massachusetts Institute of Technology) il quale afferma che «il reale tasso di disoccupazione nella Repubblica Popolare non sarebbe affatto il 17% circa (Pechino ha ripreso a pubblicare i dati a dicembre, dopo due anni di silenzio). Piuttosto sarebbe a un astronomico 40% o sopra. I dati ufficiali per esempio non contano la disoccupazione fuori dalle città e quella di chi esce dagli studi, ma non ha ancora trovato il primo lavoro». Anche sui consumi, l’economista cinese li considera «una quota ridicolmente bassa dell’economia»: appena il 39% del fatturato e persino in calo da inizio secolo, mentre sono al 49% nell’austera Corea del Sud, al 56% nel rigido Giappone, oltre che al 68% in America (58% in Italia).

Trattativa con gli Usa e col mondo

Mentre negozia con gli Stati Uniti, la Cina intende continuare i suoi sforzi per affermarsi come un vero difensore della globalizzazione liberale. In settimana il quotidiano di Pechino in lingua inglese Global Times ha macinato titoli «L’economia dimostra resilienza contro gli shock esterni» oppure «Il FMI considera rilevanti le mosse della Cina per aumentare i consumi». La guerra a colpi di dazi guidata da Donald Trump era già iniziata, seppure di minore intensità, sia con Obama e poi con l’amministrazione Biden. Ma questa volta, Pechino ha risposto riuscendo a capovolgere una situazione che era difficile da concepire trent’anni fa. Perché ora è il Partito Comunista Cinese e non la Casa Bianca, che si sta ergendo a difensore del multilateralismo e del libero scambio.

Politica economica mondiale rovesciata

In questo contesto di rovesciamento della politica economica mondiale, la Cina di Xi Jinping agisce in modo uguale e contrario agli Usa di Trump. Perché anch’essa intende far pagare il costo delle proprie contraddizioni al resto del mondo. Con l’esatto contrario dei dazi, ovvero con l’esportazione di merci più grande e commercialmente aggressiva della storia economica. L’ eccesso di capacità produttiva trasferito in tutto il mondo genera perdite di posti di lavoro, potere d’acquisto, stabilità politica.

Jamie Dimon, il capo della grande banca JPMorgan ha sconfessato Trump dichiarando a Bloomberg Television che ormai non si può più escludere che l’economia statunitense scivolerà in un periodo di stagflazione a causa dei problemi legati alla geopolitica, ai deficit e alle pressioni sui prezzi. Ma è l’Europa che rischia di più, divisa e schiacciata tra due contendenti e due strategie.

 

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