
Se si riuscisse a siglare un’intesa, che rassicurasse tutta la regione sulla impossibilità per l’Iran di costruirsi una bomba atomica, allora sicuramente respirerebbero tutti. Anche gli ayatollah, la cui traballante economia, sottoposta a sanzioni assai dure, rischia un crollo di schianto. Teheran, in questa fase, sta esaminando una sorta di memorandum, preparato dagli americani, sui contenuti che dovrebbe avere il quinto round di colloqui. Lo ha confermato ieri il viceministro degli Esteri Kazem Gharibabadi. Da parte sua, la Guida suprema, Ali Khamenei, citato da Mehr News, ha manifestato più di un dubbio sul buon esito finale dei colloqui. «Non credo – ha detto il vecchio ayatollah – che i colloqui sul nucleare con gli Stati Uniti porteranno risultati. Non lo so».
Khamenei ha parlato durante un discorso in memoria del defunto presidente Ebrahim Raisi, e gli osservatori hanno potuto sottolineare il tono insolitamente dimesso. Normalmente, fino a poco tempo fa, i suoi discorsi contro «il grande Satana americano» avevano connotazioni incendiarie. Ma ora qualcosa è cambiato e il regime, messe da parte tutte le foie che puntavano all’esportazione della rivoluzione religiosa, deve solo pensare alla sua sopravvivenza. La congiuntura geopolitica non lo assiste. Anzi, lo stringe in un angolo. Al Monitor, uno dei think tank più informati sulle vicende del Medio Oriente e del Golfo Persico, sostiene senza mezzi termini che l’Iran si trova sull’orlo di un collasso energetico. Cioè, di una situazione che sembra paradossale per una potenza produttrice di un oceano di greggio.
Secondo l’Energy Information Administration degli Stati Uniti, questo avviene perché le centrali a gas rappresentano circa l’85% della produzione elettrica totale dell’Iran. «Per i media statali – scrive Al Monitor – il governo iraniano sta pianificando di chiudere diverse importanti unità industriali verso la fine di giugno, per un periodo di almeno due settimane, poiché l’avvicinarsi della stagione estiva comporterà una pressione enorme sulla rete elettrica già in difficoltà». «Ciò porterà a niente di meno della bancarotta totale», ha affermato Arash Najafi, capo della Commissione per l’energia alla Camera di commercio iraniana, e si prevede che le chiusure colpiranno settori vitali come la produzione di cemento e acciaio».
I black-out programmati, sono un modo del governo per rispondere a un’emergenza con un’altra emergenza. Una pezza, però, per tappare un buco che ormai è diventato una voragine, perché le precarie condizioni finanziarie (e valutarie) dello Stato persiano lo obbligano a tagliare. E a scontentare la popolazione. Basti solo pensare, che questa crisi raggiunge i suoi picchi in inverno e in estate, quando cioè caloriferi e climatizzatori pesano maggiormente sul consumo di energia. Secondo l’agenzia di stampa Tasnim, durante la crisi verificatasi lo scorso dicembre, almeno 80 delle 600 centrali termoelettriche iraniane erano fuori servizio a causa della mancanza di gas. In quelle circostanze, la capacità energetica del Paese si è ridotta di 8.000 megawatt. Un megawatt di potenza può fornire elettricità a tra 400 e 900 famiglie, per un intero anno. Quindi, si prospettano nuove emergenze.
Il Ministro dell’Energia, Abbas Aliabadi – riporta Al Monitor – ha difeso le chiusure previste, affermando che la decisione è stata presa dai principali enti governativi, tra cui i Ministeri dell’Interno, dell’Industria, del Petrolio e dell’Energia, e Governatori provinciali. Dunque, quella del regime iraniano è una vera e propria ‘crisi di sistema’. E questo spiega il significativo abbassamento dei toni del suo establishment e della sua diplomazia. Come ricorda la BBC, «all’Iran è stato consentito di arricchire l’uranio solo fino al 3,67% di purezza, che può essere utilizzato per produrre combustibile per centrali nucleari commerciali. A febbraio, però – aggiunge la televisione britannica – l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica ha segnalato che l’Iran aveva accumulato quasi 275 kg (606 libbre) di uranio arricchito al 60% di purezza, un livello prossimo a quello previsto per le armi. Teoricamente, se arricchito al 90%, sarebbe sufficiente per sei bombe nucleari”.
Da qui la fretta con cui gli Stati Uniti, ma soprattutto Israele, stanno cercando di sbrogliare la matassa. Con le buone o con le cattive. Certo, molto dipende anche dall’evoluzione degli scenari politici nella regione, diventati particolarmente mutevoli, specie con l’arrivo di Trump. In questo senso, gli analisti stanno cercando di inquadrare il ruolo che potrebbe avere il recente viaggio nel Golfo del Presidente americano. Secondo qualcuno, è un vero e proprio campanello d’allarme per Teheran. Con centinaia di miliardi di dollari di contratti sottoscritti (di cui molti riguardano sistemi d’arma) i sunniti moderati della regione, sembrano avere un trattamento ancor più preferenziale di prima, da parte di Washington.
Eppure gli ayatollah, vista la crisi acuta della loro economia (e l’incipiente pericolo di rivolte sociali) avrebbero bisogno come il pane di un accordo che li sgravi, in tutto o in parte, dalle sanzioni. E nonostante la retorica diplomatica d’ordinanza, i colloqui sul nucleare si faranno, perché convengono a tutti. L’appuntamento? Potrebbe essere a Roma.