
Delhi ha sospeso unilateralmente l’Indus Water Treaty, il trattato fra India e Pakistan negoziato dalla Banca Mondiale nel 1960 che regola il flusso di sei fiumi nel bacino dell’Indo. In base all’accordo l’India controlla i fiumi orientali (Sutlej, Beas, Ravi), mentre il Pakistan quelli occidentali (Indo, Jhelum, Chenab). A Delhi sono consentiti specifici utilizzi dei corsi occidentali, purché per scopi che non alterino o comportino una perdita della massa d’acqua, come per esempio l’energia idroelettrica. In breve, la sospensione del trattato significa avere mano libera per privare potenzialmente il Pakistan dell’80% circa dell’irrigazione necessaria all’agricoltura, avverte Francesca Marino.
Lo scorso 22 aprile a Pahalgam, nella regione di Jammu, un commando composto da quattro terroristi ha attaccato un gruppo di turisti che faceva un picnic in un prato. Il bilancio è stato di 28 morti e un numero ancora imprecisato di feriti. Le modalità dell’attacco e il bersaglio differiscono da qualunque altro incidente avvenuto negli ultimi trent’anni: i quattro hanno chiesto infatti agli uomini di calarsi i pantaloni o di recitare la kalma, la professione di fede musulmana. Chi non è riuscito e chi non era circonciso è stato ammazzato a sangue freddo.
L’attacco è stato rivendicato un paio d’ore dopo dal The Resistance Front (Trf), un gruppo sconosciuto ai più in questa parte del mondo ma ben noto nella regione di Jammu e Kashmir. Il Trf è nato nel 2019 all’indomani dell’abrogazione dell’articolo 370, che ha sancito la fine del regime di semi-autonomia del Kashmir. Secondo l’intelligence indiana e secondo il dipartimento di Stato americano si tratta dell’ennesima ramificazione dell’organizzazione terroristica pakistana Lashkar-i-Toiba (Let). Trf servirebbe a coprire le tracce di un coinvolgimento diretto della Let e dei suoi sponsor pakistani negli attacchi nella regione.
Il Trf è guidato da Sheikh Sajjad Gul (alias Saifullah Kasuri): uno dei principali comandanti della Let, che risiede in Kashmir, ma nella sua parte pakistana. Da dove nei giorni precedenti all’attacco ha tuonato, assieme al generalissimo della Let Abu Musa, invocando la jihad nella regione. «Sul palco si trovavano anche membri di Hamas, che pare siano stati avvistati più di una volta nella zona negli ultimi mesi», sostiene Limes. Il Trf ha giustificato l’attacco: «i turisti sarebbero ‘coloni’ o ‘agenti indiani sotto copertura’ e i certificati di residenza rilasciati a ‘colonizzatori’, cioè cittadini indiani di origine non kashmira, che starebbero alterando la demografia della regione».
Il vertice dell’Esercito pakistano ha ribadito la cosiddetta «teoria dei due Stati, marcando le differenze inconciliabili con gli hindu (e la superiorità pakistana). E ha definito il Kashmir «la vena giugulare di Islamabad», dichiarando di essere pronto a combattere l’ennesima guerra per aiutare ‘i nostri eroici fratelli’. Fratelli poco convinti di essere aiutati da Munir. Per la prima volta i cittadini del Kashmir sono scesi in piazza per manifestare contro gli attacchi terroristici e, sempre per la prima volta, nella regione è stata dichiarata una serrata di protesta: non contro il governo, ma contro i jihadisti. «Nessuno ha intenzione di tornare alla situazione del 2019 e nessuno ha intenzione di perdere i cospicui introiti generati da turisti e pellegrini».
Secondo stime di intelligence, nella regione sarebbe rimasto soltanto uno sparuto gruppo di un centinaio di jihadisti. «Perfettamente armati e addestrati, però», precisa Francesca Marino. I quattro del commando di Pahalgam, due pakistani e due locali, erano armati anche di fucili d’assalto M4. Armi che richiedono un addestramento specifico di tipo militare. Soprattutto, sono di fabbricazione statunitense e in dotazione alle truppe Nato. Oltre che naturalmente all’Esercito pakistano grazie agli aiuti militari forniti dagli Stati Uniti durante la guerra al terrorismo. Dopo il ritiro di Washington da Kabul nel 2021, ai talebani sono stati lasciati oltre 7 miliardi in equipaggiamenti militari americani, tra cui circa 300 mila armi leggere come gli M4. Molte di esse sono finite in Pakistan e in dotazione ai vari gruppi jihadisti sponsorizzati dall’Isi, uno dei servizi di intelligence di Islamabad.
Il Pakistan nega ogni coinvolgimento e accusa l’India di un’operazione di ‘false bandiere’. Intanto i diplomatici di Islamabad sono stati espulsi dall’India. Il confine di Attari è stato chiuso, strozzando l’unica via commerciale e l’Indus Water Treaty è stato sospeso. Qualcuno invoca il bombardamento delle dighe indiane. Il capo della ‘Let’ Mohammed Hafiz Saeed e fette dell’intelligence e della politica pakistana hanno sempre legato il jihad in Kashmir alla questione dei corsi d’acqua.
«L’India sta cercando di distruggere l’economia pakistana costruendo dighe dall’altra parte del confine, dighe che bloccano il corso dei nostri fiumi o ne cambiano completamente il tracciato (…) Certamente l’ipotesi di un conflitto nucleare non fa piacere a nessuno ma, a questo punto, non è del tutto improbabile (…) E se l’Occidente e tutti gli amanti della pace nel mondo vogliono evitare un conflitto nucleare, farebbero bene a riflettere sul da farsi. Se il mondo vuole evitare una guerra nucleare deve fermare l’India». E disinnescare il Pakistan