
Al momento, sappiamo che la prima tornata dei colloqui, svoltasi a Muscat, in Oman, è stata giudicata ‘costruttiva’, così come dichiarato dal Ministro degli Esteri iraniano, Abbas Araghchi. Il diplomatico, parlando alla televisione di Stato, ha poi certificato la condotta del rappresentante americano (Steve Witkoff) come «rispettosa e senza minacce». Inevitabile il riferimento ai movimenti militari ordinati dal Presidente Trump, specie quelli dei ‘bombardieri invisibili’ B-2, percepiti dalle autorità di Teheran come una pistola puntata alla tempia. Comunque sia, in questa fase la teocrazia persiana ha ottenuto ciò che cercava e cioè guadagnare tempo, evitando un possibile e catastrofico ‘blitz’ contro i suoi siti di arricchimento dell’uranio. Questo perché i numeri ufficiali dipingono uno scenario inquietante, che pone i negoziatori davanti a scelte drastiche, non più rinviabili.
Nel suo ultimo rapporto trimestrale di febbraio, l’AIEA (Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica) ha affermato che l’Iran aveva circa 274,8 chilogrammi di uranio arricchito fino al 60% (il limite massimo stabilito dall’accordo del 2015 era il 3,67%). Si tratta di una quantità ritenuta ‘sospetta’ da molte agenzie di intelligence occidentali, che fanno notare come si sia molto vicini al raggiungimento di quella soglia del 90% di arricchimento, che consentirebbe la realizzazione di ordigni nucleari. A Teheran lo sanno, e devono comunque dimostrare di non aver continuato ad accumulare altro uranio ‘fuorilegge’. Per una verifica sul campo si muoverà, in settimana, lo stesso direttore generale dell’AIEA, Rafael Grossi, che dovrà stilare una sorta di promemoria per i negoziatori. Un altro block-notes, con suggerimenti forse ancora più importanti, toccherà riempirlo invece proprio ad Araghchi.
Se i colloqui (come ormai pare stabilito) dovessero proseguire sabato prossimo a Roma, il Ministro degli Esteri iraniano prima dovrà contattare l’alleato russo, recandosi a Mosca. Con il suo omologo Sergei Lavrov, probabilmente studierà una comune strategia diplomatica, per stabilire quali dovrebbero essere le ‘linee rosse’ delle concessioni che gli ayatollah dovrebbero spingersi a fare. Tutti i comunicati del governo iraniano sottolineano l’apertura a colloqui ‘indiretti’, che abbiano come oggetto solo lo sviluppo dell’energia nucleare (per usi civili) e la revoca delle sanzioni economiche imposte al Paese. Ora, insistere su questo tema, secondo diversi analisti, fa pensare che sicuramente Teheran ha ricevuto dagli Stati Uniti altre richieste, non proprio ‘nucleari’. Si tratta, forse, di qualche forma di «suggerimento» che riguarda settori (degli armamenti) nei quali gli iraniani stanno facendo sentire il loro peso? La mente corre veloce, alla missilistica e alla capacità, ormai universalmente riconosciuta, di fabbricare in serie droni di tutte le fogge e per tutte le tasche.
Oltre a ciò, in cambio di un lifting sulle sanzioni, che rappresenterebbe una vera e propria boccata d’ossigeno per l’economia in ginocchio del Paese, cosa ancora può avere chiesto Trump a un potere religioso sciita, mai così fluido come in questi mesi? Sempre a parere dei ‘più informati’, il Presidente americano, su pressante suggerimento dei leader israeliani, avrebbe ‘consigliato’ ai moderati, raccolti intorno a Pezeshkian, di mollare l’«Asse della resistenza». Ovvero di smetterla di organizzare, finanziare e rifornire i gruppuscoli di arrabbiati islamici di tutte le bandiere, che scorrazzano tra il Golfo Persico, il Mediterraneo e il Mar Rosso. Più facile a dirsi che a farsi perché, e qui veniamo al cuore del problema, l’Iran non è più quello di prima. Ma non è nemmeno, almeno finora, ciò che vorrebbe cercare di essere. È in un limbo, in una fase di transizione in cui non si capisce bene fino in fondo chi lo stia dirigendo.
Alì Khamenei, la Guida suprema, anziano e malmesso, è ormai agli sgoccioli e si è già aperta una feroce lotta per la sua successione. In questo scenario che, se non proprio da guerra civile, è quantomeno di possibile scontro tra una parte del Palazzo e una parte delle piazze, gli ‘intransigenti’, i duri del regime, difendono i loro fortini istituzionali. Ecco perché, prima di sedersi al tavolo con gli americani, gli iraniani dovrebbero trovare qualcuno che medii tra di loro. Quando si è saputo a Teheran che Araghchi aveva salutato Witkoff, è scoppiato il finimondo. Ecco ciò che ha scritto il think tank Al Monitor a questo proposito: «La spiegazione non è riuscita a placare la prevedibile rabbia dei suoi detrattori, ferocemente contrari a qualsiasi negoziato – indipendentemente dal formato – con gli Stati Uniti, ‘il Grande Satana’». Avevano già ricordato al Ministero degli Esteri iraniano che Trump è lo stesso Presidente che ha ordinato l’uccisione di Qasem Soleimani, il generale iraniano più potente e venerato, nel 2020…. «Il parlamentare ultraconservatore Mehdi Kouchakzadeh, focoso e provocatorio – prosegue Al Monitor – si è scagliato contro i negoziatori iraniani in un post su Telegram, definendoli ‘i disonorevoli che stanno sacrificando l’onore dell’Iran’…»
Raja News, l’organo di stampa che rappresenta l’influente schieramento ultraconservatore di Paydari, che detiene una significativa maggioranza nel Parlamento iraniano, ha trattato Araghchi con un articolo molto duro per aver ‘superato la linea rossa’ e violato le condizioni stabilite dalla Guida suprema. ‘Araghchi aveva davvero stretto la mano al diavolo’, ha sostenuto Raja News, consigliandogli sarcasticamente «di lavarsi accuratamente le mani, in modo che il sangue dei bambini palestinesi non resti su di esse».