
Apparentemente nulla, ma è uno dei tanti segnali che indicano che la Cina è avviata a raggiungere il primo posto nell’economia mondiale, primato che Xi Jinping ha promesso fin dal suo insediamento nel 2012. Punto di partenza: fornire prodotti a tutto il mondo con lo stesso livello di innovazione e attrattività che quelli americani hanno fatto per oltre mezzo secolo. Da quando è iniziata la guerra economica di Trump, il Global Times, organo ufficiale del Partito unico cinese ha lanciato una campagna di ‘soft power’, infarcita dalle consuete dosi di retorica, che presenta la Cina come paladino delle regole del commercio internazionale e porto sicuro per chi vuol fare affari.
Lo slogan utilizzato è altamente suggestivo: «L’America innalza muri, la Cina costruisce ponti». Nessun’altra occasione migliore si poteva offrire alla Cina per confezionare un messaggio così chiaro, efficace ed anti-americano. Si tratta di un’auto narrazione in cui i cinesi in gran parte credono davvero, usata per proiettare un’immagine diversa dalla realtà di regime autocratico, nazionalista e con mire imperiali. Ma è innegabile che ciò che appare a prima vista sono un muro e un ponte.
Gli effetti tangibili cinesi sono rappresentati da una capacità produttiva doppia rispetto a quella degli Stati Uniti. Un dominio tecnologico che va dai veicoli elettrici ai reattori nucleari di quarta generazione e ora produce ogni anno più brevetti e pubblicazioni scientifiche di ogni altro Paese. Si sta celebrando il passaggio epocale che ha condotto la Cina da essere la fabbrica del mondo a diventare il centro dell’innovazione tecnologica. I prodotti cinesi sono sempre più innovativi e tremendamente a buon mercato. I mercati vedono innanzitutto questo enorme vantaggio. Il patriottismo di industrie e consumatori viene in secondo piano e poco importa il come la Cina sia arrivata fin qui. Ovvero, le critiche all’aggressività commerciale che ha attinto al know-how occidentale, praticato il dumping e sussidiato l’economia.
La capacità cinese è stata quella di affermare un modello di sviluppo, di economia di scala, per generare efficienza e produttività, ovvero il totale controllo della catena del valore. Modello che gli Usa e in buona parte l’Europa hanno abbandonato con la de-industrializzazione, per cui si sono arricchite a dismisura le imprese allargando il divario con il reddito dei lavoratori.
L’armamento cinese in questa guerra commerciale non è fatto non solo di contromisure tariffarie, di titoli di debito americani posseduti e minacce di svalutazione dello yuan. L’arma letale è quella di una capacità produttiva schiacciante e prezzi bassi per tutti. I problemi interni cinesi legati alla demografia e ai bassi consumi del mercato interno non rendono la situazione eccellente neppure per Pechino, ma l’ampiezza della gamma produttiva che copre dalle ciabatte di gomma alle bici all’idrogeno favoriscono un incolmabile vantaggio competitivo nel commercio globale e quindi nella guerra per la supremazia economica con gli Stati Uniti.
Tra le due potenze c’è l’Unione Europea, il più grande mercato comune del mondo. L’Ue è schiacciata dalla pressione di Trump che vuole costringere gli europei ad applicare anch’essa dazi alla Cina per assicurarsi un’area di libero scambio occidentale. A sua volta Xi Jinping corteggia l’Europa e invita a «resistere congiuntamente alle intimidazioni unilaterali e unirsi a un nuovo sistema di alleanza commerciale». Con un’America in fase di involuzione, è un corteggiamento che non lascia indifferenti, ma nemmeno può portare a pensare che la Cina si trasformi in un alleato, partner, fidanzato o come lo si voglia considerare, fedele.
L’impero americano che ha mantenuto l’Europa alla stregua dei clientes dell’impero romano, ha assicurato pax e benessere economico in cambio di pezzi importanti della sovranità nazionale. Difficile immaginare che l’impero cinese chieda solo di vendere le proprie merci. È opinione diffusa tra gli analisti economici che la politica dei dazi abbia condotto gli Stati Uniti in «una guerra senza via d’uscita».
Quello che è certo è che la Cina è sempre più vicina e per il Vecchio, anzi vecchissimo, Continente resta il dubbio se sarà meglio passare dalla padella di un impero alla brace di un altro ancora.