
2025 ‘solo’ 849,8 miliardi di dollari
Bilancio pieno della presidenza Biden, 2024, 841.4 miliardi. Per tornare indietro di ulteriori dodici mesi, e mettere l’investimento americano del 2023 in una prospettiva mondiale, una tabella elaborata dalla Fondazione “Peter G. Peterson” su dati dello Stockholm International Peace Research Institute (SIPRI) proposta da InsideOver.
In termini semplici semplici, nell’anno fiscale 2023 gli Usa da soli spendevano per la Difesa non solo molto di più della Cina e della Russia, o di Cina e Russia insieme. Ma molto di più della somma di quanto speso da tutti i Paesi elencati nel riquadro di destra. Tra i quali ci sono, purtroppo per lei che è stata trascinata in guerra, l’Ucraina ma anche i due Paesi (dotati di bomba atomica) che ora si vogliono incaricare di proteggere Kiev dalla Russia, ovvero Francia e Regno Unito.
La tabella che riporta il rapporto per le spese della Difesa Usa-mondo nel 2019
Aggiungiamo qualche particolare. La spesa per la Difesa, negli Usa, costituisce poco meno della metà della cosiddetta ‘discretionary spending’ (spesa discrezionale), ovvero la spesa governativa ‘tramite disegni di legge di bilancio’. Le forze armate americane dispongono di circa 800 basi all’estero e del terzo esercito al mondo per numero di uomini. Se si osserva la percentuale del Pil dedicata a questo scopi dagli Usa, ci si può anche stupire: meno del 3,5%. Tutto qui?
L’inghippo lo spiega Michael O’Hanlon, già membro del Defense Policy Board del ministero della Difesa Usa e dell’External Advisory Board della Cia, analista dell’economia della Difesa e autore di libri (Defense 101: Understanding the Military of Today and Tomorrow, The Art of War in an Age of Peace: U.S. Grand Strategy and Resolute Restraint) considerati fondamentali. «In termini assoluti di dollari, aggiustando il budget Difesa per l’inflazione, è stato più alto solo durante la seconda guerra mondiale, e marginalmente più alto durante il picco delle missioni in Iraq e Afghanistan, ma siamo quasi tornati a quel livello. Quindi, siamo a un livello più alto in dollari aggiustati per l’inflazione rispetto a qualsiasi altro momento della Guerra Fredda».
Riesce quindi piuttosto difficile credere che gli Stati Uniti abbiano bisogno di più armi o più soldati per proteggere la ‘sicurezza nazionale’ o per mantenere la supremazia militare globale. Per quanto possano riarmarsi Cina e Russia, per fare i due classici esempi, la loro potenza militare sarà sempre inferiore a quella americana, che in realtà accumula vantaggio da decenni.
E allora perché Trump (o Biden, od Obama o Bush), al posto di aumentare le spese per la Difesa, non hanno usato quei soldi per qualcos’altro? Perché la ragione non è militare ma economica. E ha molto a che fare con l’attuale campagna dei dazi lanciata da Trump. Gli Stati Uniti sono un’isola o, se vogliamo restare in tema, una portaerei. Un’isola che deve essere rifornita e ha dunque bisogno di proiettarsi oltre le proprie sponde. Una grande nave che per mantenere una certa rotta a una certa velocità ha bisogno di attingere risorse anche altrove.
Il primo a intuirlo davvero, quasi un secolo fa, fu un giornalista di nome Henry Luce, l’inventore del giornalismo moderno, fondatore di testate come Time, Fortune, Life e Sports Illustrated. Luce non era solo un giornalista di successo ma anche un intellettuale e un potente influencer politico. Da repubblicano convinto, spinse moltissimo perché il presidente democratico Franklin Delano Roosevelt rompesse gli indugi ed entrasse in guerra accanto alla Gran Bretagna contro la Germania nazista. Il 7 dicembre del 1942 arrivò l’attacco giapponese a Pearl Harbor a dissipare ogni dubbio. Ma un mese prima Luce aveva pubblicato un articolo fondamentale per la politica di questo secolo, intitolato “The American Century”.
In esso il grande giornalista si batteva per l’entrata in guerra degli Usa, adducendo ragioni ideali (il Bene contro il Male del nazismo) ma anche di convenienza: era secondo lui anche «l’occasione per gli americani di accettare di diventare la più potente e vitale nazione del mondo e di esercitare su di esso tutta la forza della nostra influenza, per i propositi e con i mezzi che ci sembreranno più adatti». Accusando Roosevelt di aver praticato una politica isolazionista, Luce gli rimproverava di non capire che «il ventesimo secolo deve essere il secolo americano». E che i valori americani dovevano ‘impregnare’ la più vasta parte possibile del mondo, altrimenti la missione civilizzatrice degli Usa non avrebbe potuto dispiegarsi completamente.
Come si vede, il ‘programma’ di Luce ha fatto tanta strada, venendo persino reincarnato nel «Manifesto per un nuovo secolo americano» che nel 1997 diventò il programma dei neocon americani. Uno degli strumenti con cui, dalla seconda guerra mondiale a oggi, gli Usa si sono ‘garantiti’ il dominio del secolo c’è proprio la leva militare. Che non ha voluto dire difendersi da nemici pronti ad attaccare il suolo patrio (ci provò solo Osama bin Laden), e nemmeno necessariamente fare guerre a destra e a manca, ma controllare cieli e mari, rotte commerciali, rapporti politici; difendere alleati tatticamente preziosi in una certa fase per distruggerli magari in un’altra se diventati ingombranti; tenere alla larga rivali che in una certa zona del mondo potevano pensare di competere o di “disturbare”, come la Russia in Europa dopo la fine dell’Urss (vedi Nato) o la Cina oggi nei mari su cui affaccia. Non sempre azioni malvagie, ma sempre azioni tese a mantenere la primazia assoluta degli Usa nel mondo.
Le grandi ‘svolte economiche’ a favore del dominio americano sono sempre avvenute in coincidenza con le guerre. Con la prima guerra mondiale, attraverso il sistema dei prestiti, gli Usa (anche allora partiti neutrali nel 1914 e diventati interventisti nel 1917) presero il posto della Gran Bretagna come potenza di riferimento mondiale. Washington chiuse con crediti verso gli alleati pari a 7.077.114.750, che divennero 11.867.9430.00 nel 1920, avendo nel frattempo già stimolato il saggio critico «Le conseguenze economiche della pace» di John Maynard Keynes.
Con la seconda guerra mondiale il dollaro (Bretton Woods 1944) sostituì la sterlina come valuta di riferimento mondiale. E via via fino ai giorni nostri: dal confronto vincente con l’Urss e successivo allargamento della Nato alla guerra in Ucraina con il disaccoppiamento forzato tra Europa e Russia e gli ultimatum di Trump a comprare energia Usa; dalle missioni contro gli Houthi per tener libera la rotta commerciale del Mar Rosso allo show down con la Cina per i traffici nel Mar Cinese meridionale, dove passa un terzo del traffico merci globale. Sempre con il solito sistema: la leva della Difesa per sostenere un sistema economico che si è finanziarizzato e insieme deindustrializzato, perché il dominio del dollaro bastava a sostenere le importazioni.
Bastava. E ora non basta più. Il debito pubblico americano a gennaio aveva raggiunto 36.220.207 milioni di dollari. Difficile persino leggerla. La guerra dei dazi scatenata da Trump affonda le sue ragioni (o sragioni, vedremo) in questo numero. Ed è perfettamente coerente con la storia del Paese che il Presidente, mentre cerca di ridurre il debito, aumenti a dismisura il bilancio per la Difesa. Non certo perché non gli bastassero le armi per aiutare l’Ucraina o combattere gli Houthi ma, come sempre, per le ragioni di cui sopra. «It’s the Economy, stupid!», avrebbe detto Bill Clinton. Ah, già, quello della guerra nei Balcani, che fu anche la guerra della «globalizzazione buona contro i nazionalismi cattivi».