
Ecco cosa scrive l’Economist: «A gennaio Wes Streeting, il Ministro della Salute, ha affermato che il piano ospedaliero non era stato finanziato e non era realizzabile, e sarebbe stato ritardato: alcuni appaltatori non avrebbero dato il via ai lavori prima del 2039. Il governo laburista ha modificato non solo le tempistiche, ma anche le priorità. Si è impegnato – sostiene con durezza la prestigiosa intervista- a spostare miliardi dagli ospedali alla comunità; lungi dal combattere una pandemia, questo governo si sta ora preparando a combattere una guerra in Europa. Il futuro degli ospedali sembra incerto».
Contraddizione palese, si direbbe, di una governance politica disorientata, quasi allo sbando. Il Regno Unito, percorso (ai vertici) da rigurgiti bellicisti, non si sa quanto fondati, s’inerpica lungo la china pericolosa di «più cannoni e meno burro?». E tutto questo avviene in un Paese con un sistema di sicurezza sociale decrepito, che esce da un quinquennio di forti scossoni finanziari. E che non si può permettere tagli al welfare e, meno che mai, nuove tasse. È un’analisi impietosa quella fatta dall’Economist, che ha il pregio di non essere certo inquinata da pregiudiziali ideologiche. Dipinge scenari che quasi tutti temono, e dove, secondo noi, la saldatura tra varie élites di potere smonterà lo Stato sociale, così come lo abbiamo conosciuto finora, per dirottare risorse in altri settori che creano più ricchezza (e consenso). Aree del sistema che garantiscano la salvaguardia del potere.
A questo punto, verrebbe da dire che qualcuno ‘predica male e razzola bene’, ma per gli interessi di chi? Come un moderno alchimista politico questo ‘qualcuno’ è riuscito a invertire il vecchio detto e, contemporaneamente, anche a ingarbugliare sempre di più la matassa diplomatica della crisi ucraina. Parlare a vanvera, con un attivismo fin troppo frenetico, fa venire dei sospetti. Se poi è l’Inghilterra a promuovere «coalizioni tra volenterosi», che ricordano le guerre napoleoniche di due secoli fa, allora la puzza di bruciato aumenta. Specie se a suonare la carica dei suoi novelli dragoni è Sir Keir Starmer, di professione Primo ministro di Sua maestà britannica. Laburista. E qui c’è già qualcosa che non torna. A via di proclami, come il generale Wellington a Waterloo, tra le altre cose, il premier britannico, partendo dalla svolta (da lui non tanto apprezzata) impressa da Trump alla guerra in Ucraina, ha rilanciato: riarmiamo l’Europa per difenderla, visto che gli americani si vogliono disimpegnare. Ma Starmer, se capisce di cosa sta parlando, non può ignorare che la sua visione truculenta dei futuri equilibri geopolitici europei, passa solo attraverso l’allargamento (smodato) dei cordoni della borsa.
Sostenere il piano di rimilitarizzazione del Vecchio continente, costa un occhio. E la coperta è troppo corta, in particolar modo nel Regno Unito, dove i laburisti sono arrivati al potere in carrozza, quasi trainati dallo scasso finanziario provocato dai conservatori. Insomma, ‘il piatto piange’, come si direbbe in gergo pokeristico, e Starmer deve stare attento a come tiene le carte in mano. Non deve farsi forte della sua oceanica maggioranza parlamentare, perché gli umori del Paese sono imprevedibili. E pure quelli della piazza. E in effetti, i sogni di ritorno alla grandezza imperiale vittoriana di Sir Starmer cozzano con i bisogni più urgenti della sua popolazione. Tornando al tema non tanto spicciolo della salute, l’Economist aggiunge graffiante: «Il governo deve decidere cosa vuole dagli ospedali del futuro. Poi dovrà capire come pagarli. Un suggerimento avanzato dal direttore esecutivo uscente del NHS, Amanda Pritchard, è quello di riportare le iniziative di finanza privata per i progetti di capitale».
Londra non sa esattamente a cosa le serviranno gli ospedali, come riuscirà a pagarli e (summa iniuria) se il governo laburista stenderà il tappeto rosso sotto i piedi alla grande finanza privata. Un pericoloso toboga politico, pur di riarmarsi fino ai denti. Tutto questo per tacere delle altre palesi incongruenze che si porta appresso il piano di riarmo del redivivo duca di Wellington in salsa laburista. Ha scritto Ben Marlow sul Daily Telegraph: «Non sembra un’opzione praticabile lasciare che la British Steel fallisca. La scomparsa delle sue acciaierie ci lascerebbe come l’unica nazione del G7 senza la capacità di costruire nuovo acciaio da zero, in un momento in cui ne abbiamo bisogno di più, non di meno, per riarmarci». Cioè, per capirci, Starmer vuole riempire l’Inghilterra di carri armati, ma si è dimenticato che la siderurgia britannica è in rovina. Piccolo dettaglio: se la sono comprata i cinesi nel 2020 ‘per salvarla’, si sono fatti foraggiare dal governo conservatore a un milione di sterline al giorno e ora stanno mettendo i catenacci.
«I ministri del lavoro potrebbero pensare di non avere altra scelta se non quella di intervenire e nazionalizzare la British Steel – aggiunge Marlow – ma si tratterebbe di una grossa scommessa con i soldi dei contribuenti. La produzione di acciaio in questo Paese è in crisi, messa a terra principalmente dall’intensa concorrenza estera e dagli alti costi, anche per la necessità di diventare green. I dazi di Donald Trump – conclude il Telegraph a mo’ di epitaffio – minacciano di essere il chiodo nella bara». Dio salvi il Re. E pure noi.