
Il ‘Global South’, con capitale a Pechino, si candida a guidare l’economia mondiale. Parola del vice premier cinese Ding Xuexiang che ha proclamato la Cina il paladino della globalizzazione. E il Global Times, organo ufficiale del governo di Pechino, ha scandito con la consueta enfasi i numeri della partecipazione: 2.000 rappresentanti da oltre 60 paesi, più di 1.100 giornalisti da quasi 150 organi di stampa in 30 paesi. Spazio quindi alla propaganda, ma con elementi concreti che mai come ora possono ridefinire i giochi nel commercio mondiale.
L’economia asiatica contribuisce al 40% del Pil mondiale e secondo l’Asian Economic Outlook and Integration Progress Report, dovrebbe crescere del 4,5 percento nel 2025. Il Forum asiatico a guida cinese si è incentrato sulle tre aree chiave dell’economia globale: integrazione economica, sviluppo sostenibile/green e innovazione tecnologica. Mentre galoppano le industrie dei veicoli elettrici e delle energie rinnovabili, così come la spinta all’intelligenza artificiale, è l’integrazione economica il punto critico che la Cina dovrà affrontare se intende realmente perseguire l’obbiettivo di una leadership globale.
«Espanderemo costantemente l’apertura istituzionale, faciliteremo ulteriormente l’accesso al mercato per gli investimenti esteri… e accogliamo sinceramente le imprese di tutti i paesi per investire e svilupparsi in Cina», ha detto il vice presidente cinese Ding. La realtà è che gli investitori stranieri non gli credono. Certo, in Cina si possono fare ottimi affari, ma gli ostacoli per essere padroni del proprio business restano elevati in un campo di gioco più favorevole per le società statali. Gli investimenti diretti esteri in Cina sono diminuiti del 13,4%, pari a 13,5 miliardi di dollari solo nel mese di gennaio ‘25, secondo i dati più recenti del ministero del commercio cinese.
La difesa, a tutti gli effetti protezionista, delle proprie imprese ha permesso alla Cina di raggiungere i livelli di sviluppo attuale. Il successo nell’industria dell’auto elettrica e delle tecnologie pulite (fotovoltaico su tutti) non è derivato dalla liberalizzazione delle politiche economiche, ma dagli interventi statali sul mercato e dai sussidi in nome di obiettivi nazionalisti. La grande incertezza creata da Donald Trump offre alla Cina l’occasione di proporsi come il rassicurante stabilizzatore, seppur dopo aver sconquassato il commercio mondiale a colpi di sussidi per le proprie industrie e prezzi di dumping.
Le parole di Ding sapranno trasformarsi in fatti? In particolare in maggiore libertà per giocare alla pari nel campo delle unioni societarie tra aziende straniere e locali oppure nel trasferimento della proprietà intellettuale di marchi e brevetti. Intanto a Boao si sono tenute prove di avvicinamento con l’Europa, interlocutore chiave per la Cina. Lo ha confermato l’intraprendenza in chiave anti-trumpiana di ex grandi papaveri del commercio internazionale, ora in veste di consiglieri.
Gente come Lord Gerry Grimstone, ex ministro per gli investimenti del Regno Unito che ha affermato “Dobbiamo riconoscere che gli Stati Uniti stanno rinunciando alla loro leadership globale e che il multilateralismo crollerà”. Ian Goldin, ex vicepresidente della Banca Mondiale, ha sottolineato la necessità di rilanciare la globalizzazione modello Wto, perché “abbiamo bisogno di un sistema basato su regole per impedire ai bulli di dominare il resto”. Michele Geraci, ex sottosegretario di Stato al Ministero dello Sviluppo Economico italiano ha rinnovato la fiducia nell’economia asiatica e cinese in particolare.
Promesse cinesi all’Europa
Dietro alle promesse cinesi a Bruxelles di apertura, trasparenza e reciproco vantaggio è l’Ue che rischia grosso. Con Trump che colpisce con i dazi la Cina rappresenta una risorsa, ma anche un pericolo perché la sua sovracapacità produttiva di merci a basso prezzo rischia di riversarsi sul mercato europeo.