L’Isola incerta tra Manica e Atlantico

Una volta esisteva la ‘Terza via’ di Tony Blair, ‘ vanto del pensiero politico moderno britannico. Oggi c’è quella di Sir Keir Starmer, premier del Regno Unito da pochi mesi, che l’ha dovuta affannosamente elaborare, di gran corsa, per cercare di tener buono quell’energumeno di Donald Trump. Affinità di qualche tipo, simpatie o cointeressenze? Nessuna. Solo ‘dazi doganali’ e ‘clausole commerciali’. I soldi.

Regno Unito o Gran Bretagna, sempre guai

Montagne di dollari e sterline, essenziali per risollevare un ex Impero sempre più scalcinato, messo in ginocchio dalla “tempesta perfetta” che ha colpito tutta l’Europa. E se non bastavano covid, shock postpandemici e guerra in Ucraina a complicare il quadro londinese, la botta finale l’hanno data le perverse ricadute della Brexit. Dunque il “labour” è stato riportato al potere, a furor di popolo, per cercare di mettere una pezza a un’economia pubblica che fa acqua da tutte le parti. I servizi sociali inglesi, a cominciare dalla sanità, sono in caduta libera e la copertura del sistema pensionistico è a rischio. Stiamo parlando di una vera situazione di quasi emergenza, che ha fatto crollare di schianto il blocco conservatore. E con questo stato di cose, Sir Starmer può parlare quanto vuole dei “sacri principi”, ma lui per primo sa che non gli sarà facile trovare i soldi per il riarmo furiosamente invocato dall’Unione.

Exit, ma la Manica è più corta dell’Atlantico

Londra si può smarcare dai vincoli Ue come vuole, non facendone parte. Ma il problema è che i parametri macroeconomici del Regno Unito, per esempio, non sono quelli della Germania. Berlino può ancora permettersi di fare altro deficit, visto il livello del suo debito pubblico su Pil è poco oltre il 60%, che in Inghilterra è invece vicino al 100%. Con questi chiari di luna, i margini di manovra di Starmer con Trump sono molto stretti e l’egoismo nazionale britannico, di cui è pervasa la storia negli ultimi secoli, fa il resto. In fondo, la Brexit ne è la dimostrazione palese: gli inglesi hanno sempre guardato all’Unione Europea con animo mercantile. E lo stesso fanno ora con Trump. Starmer recentemente è volato in America, per una visita alla Casa Bianca. Il Guardian ha scritto: “C’è ancora abbastanza amore nella speciale relazione tra Stati Uniti e Regno Unito o la magia è svanita? Questa è la domanda che Keir Starmer è arrivato a Washington per porre in occasione di quello che Sir Peter Westmacott, ambasciatore britannico dal 2012 al 2016, ha definito uno degli incontri più importanti tra un Primo ministro inglese e un Presidente Usa, che abbiamo avuto luogo dalla Seconda guerra mondiale”.

Re Carlo, ma poi i conti di cassa

Dopo avergli consegnato un invito personale di re Carlo III, Starmer ha parlato con Trump di Ucraina, è vero, ma prima ancora i colloqui si sono concentrati su “cointeressenze specifiche”. “Trump – riporta il Guardian – ha parlato favorevolmente di un controverso accordo, proposto da Starmer per restituire le isole Chagos a Mauritius e poi affittarle di nuovo per mantenere il controllo di una base aerea strategica. Inoltre, (testuale, n.d.r.) ha suggerito che il Regno Unito non avrebbe dovuto affrontare i dazi che ha meditato di imporre all’UE”. Che poi, detto tra di noi, è il vero motivo che ha spinto il premier britannico laburista ad andare ad abbracciare il suo ingombrante alleato. E che Londra, sull’Ucraina, si stia intestando un’attività di mediazione tutta sua, collegata senz’altro con quella dell’Unione Europea, ma comunque “distinta” (se non in vera e propria contraddizione) è testimoniato dalle iniziative diplomatiche di questi giorni. Mentre a Bruxelles l’UE si riunisce, nel Regno Unito Starmer si è mosso in parallelo, per organizzare una mega-operazione di peacekeeping (“Coalizione dei volenterosi”). Sforzo che potremmo definire, senz’altro, di cosmesi diplomatica, dato che si tratta solo di progetti con quasi nulle possibilità di essere messi in pratica.

‘Coalizione dei volenterosi’ e pie illusioni

Perché? Intanto il piano scatterebbe solo in caso di una pace (o, comunque, cessate il fuoco) firmata e controfirmata. In secondo luogo, non si tratterebbe di una semplice missione di mantenimento della pace, ma bensì di “peaceenforcing”. Cioè, all’occorrenza bisognerebbe anche prendersi la briga di sparare. E chi lo farebbe: le truppe inglesi? Dunque, l’agitazione diplomatica di Starmer ha il fine di ‘mostrare la bandiera’, e di ricordare subliminalmente a Trump che l’Union Jack non è quella azzurra, con le stelline dell’Unione. Vedremo poi se, alla prova dei fatti, questa differenza di posizionamento peserà ulteriormente su un’Europa che appare molto più sfilacciata di quanto si sforzi di sembrare. Ma la vera prova d’appello, per le paturnie belliciste del blocco di potere che si va cementando nel Vecchio continente, sarà il comportamento delle Banche centrali. Quella d’Inghilterra, storicamente, è stata quasi sempre un modello di saggezza, non facendosi influenzare dalla politica e guardando, nel lungo periodo, al benessere dei cittadini. Sulla Banca centrale europea abbiamo invece qualche dubbio in più.

Ieri, Christine Lagarde ha dichiarato che i piani del ReArm Europe (per 800 miliardi) sono una buona cosa, “perché fanno aumentare il Pil”. Peccato però che i cannoni non si mangino e che i proiettili non curino la polmonite. Ma di cosa stiamo parlando: la qualità della vita di un popolo, si misura dal Pil o dai suoi servizi sociali?

Condividi:
Altri Articoli
Remocontro