
Gli antefatti. Alla fine del 1854 francesi, inglesi e turchi erano inchiodati davanti ai bastioni di Sebastopoli, città della Crimea difesa dai russi. Molti paralleli storici possibili con l’attualità russo ucraina, a cambiare Zar e soprattutto portata poliotica italiana, anzi no, scusata allora ancora solo ‘sabauda’.
Allora come oggi, il dire e il non dire al Parlamento del molto parlare. Dopo la firma degli accordi, Cavour li sottopose all’approvazione parlamentare con la relazione del suo governo, motivi di alta idealità (il trumpismo era inimmaginabile), e sottacendo il motivo principale, ossia i concreti vantaggi che si sarebbero potuti ottenere per il regno a danno dell’Austria. Sottolineò quindi che si trattava di una «guerra della giustizia e della civiltà»: oltre al ricordo ancora vivo della dura repressione della rivolta polacca del novembre 1831, in quegli anni si dibatteva della persistenza in Russia dell’istituto medioevale della ‘servitù della gleba’.
Un altro argomento fu il richiamo alle antiche tradizioni commerciali di Genova sul Mar Nero e di Casa Savoia in Oriente. Aver menzionato Genova si rivelò però imprudente, perché il genovese Lorenzo Pareto chiese quali garanzie avrebbe potuto offrire il governo ai commercianti della città che in caso di guerra, per i mancati affari, avrebbero perso «almeno quindici milioni di lire». Cavour replicò che «i capitani genovesi hanno già da tempo dichiarato la guerra alla Russia, poiché in gran numero hanno noleggiato le loro navi alle potenze occidentali belligeranti, e stanno da più mesi nei porti del Mar Nero».
Il vero dibattito cominciò dopo dimostrando tra l’altro che – a parte i toni retorici del tempo – molti parlamentari erano preparati e capaci di fini dialettiche, come il generale Giacomo Durando che, pur esprimendosi con frequenti richiami all’antica cavalleria, sposò in pieno la tesi governativa della «guerra della civiltà». Il deputato ravennte Luigi Carlo Farini, per sottolineare il dispotismo zarista, ricordò l’infelice frase dello zar Nicola ai suoi generali «Andremo a Varsavia, dovessimo avere il sangue fino alle ginocchia» suscitando viva sensazione tra i presenti.
Tra primi a contestare il concetto di «guerra di civiltà» vi fu il piemontese Angelo Brofferio, tra l’altro avversario di Cavour da tempo: ricorrendo ad un’immagine forte che evocava torture e supplizi («lo ‘knut’ e il palo», ossia la frusta russa o il palo ottomano) chiese se entrambi non fossero in egual misura oppressori di popoli. Il deputato Michele Cesaretto invece trattò con sarcasmo i richiami ai cavalieri antichi fatti da Durando: il Conte Rosso o il Conte Verde (antenati di Casa Savoia), o i paladini Orlando e Rinaldo non avessero rischiato finire «all’ospedale dei pazzi».
Efficace, ma inascoltato, infine Gustavo Benso di Cavour, fratello maggiore del presidente del consiglio che sedeva però all’opposizione: dopo aver distinto tra volontà degli ufficiali e della truppa, aggiunse «Io credo che […] dovremmo occuparci anche del soldato e del durissimo carico che gl’imponiamo di andar contro la sua volontà in una spedizione grave e molto pericolosa». Non mancò neppure un deputato della maggioranza, l’emiliano Antonio Gallenga, che affermò che «la guerra fa bene ai soldati» e che, anche in mezzo ad un conflitto duro e dove era già scoppiata un’epidemia, «vi è un Dio che protegge il Piemonte».
A proposito di questo intervento, una nobildonna che seguiva i lavori parlamentari annotò nel diario che «se il trattato non avesse avuto difensori più esperti, esso sarebbe stato rigettato». I deputati subalpini approvarono con centouno voti favorevoli e sessanta contrari il 10 febbraio; il Senato con sessantatre a ventisette il 2 marzo e il 4 fu la guerra.