
Vince (e comanda) chi è più ricco. E, in questo senso, davanti agli Stati Uniti Trump vede un unico potenziale nemico, capace di crescere fino al punto di sfidare la potenza americana. E di scavalcarla. Per questo, ha riempito la sua Amministrazione di ‘falchi’ anti-cinesi, specializzati nel cercare di tarpare le ali ai temibili nipotini di Confucio. I dazi doganali, è vero, valgono per tutti. Ma il bersaglio grosso, quello che non fa prendere sonno all’establishment politico a stelle e strisce, è Pechino. Per l’indolenza del ‘capitalismo di cartone occidentale’, sempre più interessato agli investimenti speculativi di rischio, la Cina è diventata «la fabbrica del mondo». Cioè, si è trasformata in una insostituibile piattaforma di approvvigionamento, di materie prime e semilavorati ad alto valore aggiunto, che riforniscono le catene di produzione di tutto il pianeta.
Questa dipendenza, secondo molti strateghi occidentali, deve essere spezzata. Da qui i tentativi (malriusciti) di «disaccoppiamento» e la crisi ormai strutturale della globalizzazione. La nuova dottrina Trump, che potremmo definire ‘del bastone e della carota’, prende spunto da questa situazione per utilizzare l’approccio protezionistico nel commercio internazionale come ‘clava’ diplomatica. Tuttavia, come in un gioco che sembra mutuato da un capitolo della «Grand strategy», la sfera politica, quella economica e persino quella militare si influenzano a vicenda. E si sovrappongono. Diventa, pertanto, complicato individuare un filo conduttore coerente, che non faccia apparire quantomeno ondivaga (per non dire incomprensibile) una simile politica estera.
Se queste sono le premesse teoriche, sul piano pratico assistiamo a un groviglio di azioni, che contribuiscono a rendere gli attuali equilibri internazionali sempre più imprevedibili. Dunque, il ‘focus’ del trumpismo è la Cina. Le prime mosse della nuova Amministrazione repubblicana sembrano ripercorrere la vecchia strategia del ‘cordone sanitario’ che sviluppava la dottrina del ‘Contenimento’. Questa volta, però, Trump usa anche il ricatto tariffario e qualche promessa commerciale per ridurre i suoi interlocutori a più miti pretese e convincerli a collaborare. In questo quadro, la Casa Bianca sta tentando un grande rilancio del «QUAD», che è un patto di difesa aperto, che vede assieme India, Stati Uniti, Giappone e Australia. E che va considerata un’operazione diplomatica concepita, principalmente, in funzione anti-cinese.
La visita di Narendra Modi, il premier indiano, a Washington, rappresenta l’architrave principale di questo progetto. Un ‘do ut des’ commerciale, può essere la chiave per stringere accordi politici e di sicurezza nell’ottica del ‘contenimento’. Infatti, come riporta l’Indian Express, «l’India sta negoziando con gli Stati Uniti per l’acquisto e la coproduzione di veicoli da combattimento e sta finalizzando un accordo per motori da caccia». Le discussioni includono – prosegue il giornale – l’acquisizione di veicoli da combattimento Stryker da General Dynamics, con piani per la coproduzione tramite un’azienda statale. «I colloqui sono iniziati dopo una dimostrazione per l’esercito indiano alla fine dell’anno scorso. Inoltre, entrambe le nazioni stanno lavorando per concludere i colloqui contrattuali sulla coproduzione di motori da caccia in India, un accordo inizialmente concordato nel 2023».
Un business militare che dovrebbe essere ‘consacrato’ dalla firma di un patto di collaborazione in tutti i campi della difesa. Ma ‘QUAD’ per Trump significa prima di tutto Giappone e Shinzo Abe, l’ex premier che ne è stato uno dei più ferventi sostenitori. Questa volta, il testimone del fedele alleato nipponico, è stato preso dal nuovo Primo Ministro, Shigeru Ishiba. Anche lui ‘in pellegrinaggio’ da Trump la scorsa settimana e, come riporta il South China Morning Post di Hong Kong, «l’America e il Giappone hanno mostrato unità nei loro sforzi per contrastare la Cina sui fronti economico e della sicurezza e hanno ribadito il loro impegno per un Indo-Pacifico libero e aperto». Inoltre, il Presidente Usa ha annunciato la vendita di missili Standard Missile-6 Block I per un valore di 900 milioni di dollari come dimostrazione dell’impegno della sua Amministrazione nei confronti del Giappone.
Secondo il ‘Post’ di Hong Kong i due hanno discusso di strategia anti-cinese e Ishiba ha assicurato che gli Stati Uniti «sarebbero intervenuti a difendere militarmente le Isole Senkaku», un arcipelago giapponese rivendicato dalla Cina. Tokyo pensa (o spera?) che gli Usa si comporterebbero per le Senkaku come farebbero in caso di invasione di Taiwan. Intanto, parlando di cose concrete, Trump ha già avvisato gli amici nipponici di prepararsi ai suoi possibili dazi doganali, in arrivo. «Il Giappone – ha detto – ci costa 100 miliardi di dollari di rosso alla bilancia commerciale».