
È del tutto evidente che i 50 mila (o 80 mila, secondo altre fonti) morti di Gaza possono rientrare nelle statistiche e nella storia di stermini di massa, ma non sono definibili un «genocidio» e sono anche la conseguenza tragica del conflitto che da decenni insanguina il Medio Oriente e della reazione militare d’Israele alle orrende stragi perpetrate da Hamas. L’incriminazione del presidente Benjamin Netanyahu alla Corte penale internazionale dell’Aja parla di crimini di guerra e crimini contro l’umanità (al pari dell’atto d’accusa contro Vladimir Putin) ma non parla di «genocidio».
Detto questo, occorre tuttavia analizzare a fondo le dichiarazioni di questi giorni del presidente Donald Trump, peraltro applaudite e probabilmente prese alla lettera dal presidente Netanyahu, in riferimento alla deportazione/trasferimento di più di due milioni di palestinesi da Gaza. Parole che hanno come corollario progetti urbanistici enunciati dallo stesso Trump. Sognati da israeliani e promossi dal genero del presidente americano, Jared Kushner. È chiaro che spostare i palestinesi da Gaza a un’altra terra o in un altro Paese non significa l’annientamento di un’intera popolazione.
Ma occorre chiedersi, se mai i piani di Trump e Netanyahu fossero realizzati, a che cosa sia politicamente e culturalmente paragonabile la prossima «operazione Palestina». Il coronamento di quanto militarmente ottenuto attraverso la distruzione di case e infrastrutture, desertificazione dell’area, carestia ed epidemie, dilazione a tempi indefiniti dei due Stati riconosciuti, occupazione illegale di terre, progetti immobiliari. È lecito parlare di «soluzione finale» per i palestinesi, mascherata da sforzo umanitario per nascondere una sostanziale, benché non più sanguinosa, «pulizia etnica»?
Se il presidente Trump, con classico linguaggio yankee, pensa di «finire il lavoro», non significa altro che il sostegno politico, militare, diplomatico ed economico ai piani d’Israele, immaginando anche un intervento americano diretto nella Striscia. La narrazione del seguito non è la pace, né la soluzione dei due Stati, ma un’occupazione coloniale di Gaza, con la benedizione della Casa Bianca, sostenendo che i palestinesi non potranno vivere fra le macerie. Una visione che riduce i palestinesi a esseri che possono essere trasportati senza riguardo per la loro volontà, sovranità o diritto internazionale.
Del resto, ha un significato il fatto che Netanyahu sia il primo capo di Stato a visitare gli Stati Uniti nel secondo mandato di Trump. La politica della Casa Bianca, nel secondo come nel primo mandato di Trump, conferma la volontà di sostenere senza riserve Israele e – con le dichiarazioni di questi giorni – di arrivare appunto alla «soluzione finale», cinicamente venduta come la «riviera di Gaza», la futura più bella spiaggia del Mediterraneo.
I sauditi hanno ribadito il loro sostegno alla soluzione dei due Stati. I governi di Egitto e Giordania rifiutano l’idea di trasferire i palestinesi nel loro territorio. Qualcuno si chiede se Trump sia improvvisamente impazzito. Ma se è vero che la pulizia etnica di Gaza sembra oggi follia, le sue parole vanno prese sul serio, in quanto pronunciate dal presidente degli Stati Uniti. I marines potrebbero anche conquistare Gaza, ma a che prezzo? Si può immaginare che migliaia di combattenti di Hamas decidano di arrendersi senza combattere?
Nuova Nakba ora americana
La proposta di Trump in effetti altro non è che una riedizione della Nakba – l’espropriazione che ha reso molti dei palestinesi nella condizione di rifugiati a Gaza. E Gaza rappresenta anche la memoria storica di quanto i palestinesi hanno subito. Si potrebbero trasferire, ma solo con la forza. E se ciò avvenisse, anziché la sistemazione pacifica di tutto il Medio Oriente, come sogna Trump, questo significherebbe un effetto domino che travolgerebbe le fragili colonne della politica americana nell’area, ovvero la normalizzazione dei rapporti con i Paesi arabi e il depotenziamento della minaccia iraniana.
In definitiva, oltre che immorale, la «soluzione finale» altro non sarebbe altro che un suicidio politico.