
Ovvio, la democrazia come fatto culturale è un peso. I nostri padri hanno dato il sangue per conquistarla, hanno fatto la resistenza contro nazisti e fascisti per la libertà di tutti. Hanno ottenuto attraverso questa democrazia faticosa diritti civili e sociali, per una sanità pubblica, per l’istruzione, perché il lavoro non fosse sfruttamento, per non vivere in uno stato di controllo e polizia.
Diceva mio zio Agostino, scultore anarchico che viveva e lavorava a Parigi: ricordati sempre che i diritti si conquistano e poi si difendono. Chi ha potere e ricchezza non cede volentieri sul terreno della giustizia sociale. Se lo fa è perché è costretto, ma appena può…
E infatti così è andata. Abbiamo smesso di batterci per la democrazia come fatto culturale, abbiamo confuso la libertà come libera espressione di fare i nostri comodi, abbiamo ceduto i principi nel nome del benessere di un progresso reazionario. E ora i nodi vengono al pettine. I peggiori rigurgiti bellicosi e razzisti, di sfruttamento e crudeltà, hanno rialzato la testa.
Sono ripetitivo, ma è una questione culturale. La politica segue a ruota la mentalità del tempo. E questa mentalità si costruisce in un sistema bizzarro di ignoranza dei dati, di arroganza, di culto del più forte e del più ricco. Anche perché le uniche fonti a cui attingono gli ignoranti sono quelle opache dei social, le imprecise omertose delle tv.
Che fare? Beh, intanto decifrare con senso critico il mondo che incombe. Le cose sono difficili, ma non complicate da capire, basta porsi delle domande. Non cadere nella trappola della cattiveria, dell’accettazione della crudeltà come un fatto ineluttabile. E ognuno deve fare il suo. Basta un piccolo passo, un gesto di coerenza, un capire anche sul piano territoriale qual è il bene comune e quale invece no. Con consapevolezza e coraggio, contro il conformismo del tempo che tende a renderci passivi e obbedienti all’ingiustizia come dogma.