La democrazia è un peso

La democrazia come fatto culturale è un peso. Non ci sono dubbi, si nutre di senso critico e partecipazione, di fatica e conoscenze, di pensiero che si fa azione. Si basa su idee di uguaglianza e giustizia sociale, di concetti come la cura per il bene comune, l’attenzione per gli altri, il rispetto reciproco. Si basa sulla semplice idea che i diritti siano uguali per tutti. Che la libertà non sia per alcuni, ma per l’intera collettività, nel rispetto di ognuno dei cittadini.

Ovvio, la democrazia come fatto culturale è un peso. I nostri padri hanno dato il sangue per conquistarla, hanno fatto la resistenza contro nazisti e fascisti per la libertà di tutti. Hanno ottenuto attraverso questa democrazia faticosa diritti civili e sociali, per una sanità pubblica, per l’istruzione, perché il lavoro non fosse sfruttamento, per non vivere in uno stato di controllo e polizia.

Diceva mio zio Agostino, scultore anarchico che viveva e lavorava a Parigi: ricordati sempre che i diritti si conquistano e poi si difendono. Chi ha potere e ricchezza non cede volentieri sul terreno della giustizia sociale. Se lo fa è perché è costretto, ma appena può…

E infatti così è andata. Abbiamo smesso di batterci per la democrazia come fatto culturale, abbiamo confuso la libertà come libera espressione di fare i nostri comodi, abbiamo ceduto i principi nel nome del benessere di un progresso reazionario. E ora i nodi vengono al pettine. I peggiori rigurgiti bellicosi e razzisti, di sfruttamento e crudeltà, hanno rialzato la testa.

La democrazia è un peso, già. Con tutta questa rottura di scatole di diritti, giustizia, bene comune, partecipazione, cultura. Poi, cultura, che parola pesante in tempi di conformismo, indifferenza e spregiudicatezza ignorante. Meglio una democrazia farlocca fatta di suggestioni mediatiche e narrazioni tossiche a ispirare l’unico esercizio democratico accettato (per ora): il voto. Uno vota, a orecchio, per sentito dire, perché ispirato dalla tv, poi torna a casa, si mette comodo sul divano e assiste allo sfacelo del Paese, come se fosse una realtà parallela. Come se fosse inesorabile. Gioisce per gli arricchimenti spropositati dei ricchi e non si pone dubbi sul fatto che a pagare i loro lussi siano i poveri, la classe media, quelli che votano e poi stanno zitti perché non hanno niente da dire sull’ingiustizia di un sistema cinico e belluino. Perché non la capiscono, non hanno senso critico per mettere in questione gli elementi che hanno davanti agli occhi.

E così troneggiano sui divani. Sentenziano sui social, senza arte né parte, senza la minima conoscenza su niente.

Sono ripetitivo, ma è una questione culturale. La politica segue a ruota la mentalità del tempo. E questa mentalità si costruisce in un sistema bizzarro di ignoranza dei dati, di arroganza, di culto del più forte e del più ricco. Anche perché le uniche fonti a cui attingono gli ignoranti sono quelle opache dei social, le imprecise omertose delle tv.

Che fare? Beh, intanto decifrare con senso critico il mondo che incombe. Le cose sono difficili, ma non complicate da capire, basta porsi delle domande. Non cadere nella trappola della cattiveria, dell’accettazione della crudeltà come un fatto ineluttabile. E ognuno deve fare il suo. Basta un piccolo passo, un gesto di coerenza, un capire anche sul piano territoriale qual è il bene comune e quale invece no. Con consapevolezza e coraggio, contro il conformismo del tempo che tende a renderci passivi e obbedienti all’ingiustizia come dogma.

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