
Da quando l’ignoranza è diventata una categoria filosofica, o per meglio dire, il terreno preferito sul quale agire nella dialettica? Da quando l’ignoranza e quel non sapere e non capire niente di più complesso dell’etichetta della birra, con la convinzione di aver chiaro tutto, sono diventati valori sui quali essere orgogliosi? Non ho una risposta, mi pongo la domanda, mentre assisto al disprezzo di stampo fascista per tutto quello è identificato come diverso, che vagamente ha un minimo di consapevolezza sociale e culturale. O, per lo meno, un minimo di ragionevolezza, di umanità.
Gli ignoranti non hanno preso il potere, non potrebbero farlo. Però adesso agiscono alla luce del sole, rivendicando ogni forma di stupidità, di becerume, di rigurgito razzista, di aggressività impasticcata. Rappresentano le avanguardie picconatrici della distruzione dei vincoli umani, culturali, ecologici, politici a vantaggio di una visione subumana, fatta di cattiveria, livore, di masochismo sociale e territoriale.
Sono quelli che odiano. Odiano gli umani odiano gli alberi. Detestano il verde e considerano “da intellettuale” non solo leggere un libro, ma proteggere un giardino pubblico dai sacchetti dell’immondizia, o difendere il diritto degli ultimi a esistere e ad avere diritti. Sdoganati dalle urticanti arene televisive, dai media in genere, si sono abbeverati alla narrazione tossica della pappa securitaria, propagano la paura come fosse una diceria da comari. Hanno scoperto il nemico, finalmente. Ora sanno perché i loro figli sono disoccupati, perché il futuro cade a pezzi e perché l’aria infetta delle discariche arriva alle loro finestre.
Ora che hanno capito, con i loro forconi, con il fez o con i nickname sui social, rabbiosi e avvelenati, sono scesi in campo per questa rivolta. Hanno scelto. E clicca qua clicca là si sono schierati al fianco di chi deturpa, di chi violenta, di chi inquina, di ogni forma di sopraffazione del forte sul debole, dell’uomo sulla donna. Sempre dalla parte del padrone, come cani da guardia con i denti di fuori, a difendere gli interessi di chi nei decenni li ha resi più poveri e schiavi, sicuramente senza speranze né redenzione.
L’ignoranza non ha preso il potere, dicevo prima. Ma come è accaduto per il fascismo, rappresenta il tappetino dove il potere può poggiare i piedi senza sporcarseli. Ci pensano gli schiavi a combattere per spezzare ogni opposizione, ogni resistenza, ogni dialettica civile. Brutti, sporchi e cattivi e al servizio di un’idea di società che preveda meno diritti (e neanche uguali per tutti), ricatti come fossero dogmi e tanta tanta bruttezza. Obbedienza ottusa a comportamenti di massa spregevoli, sui social come sulle spiagge, nelle città del turismo dove la declinazione ovvia del pianeta ignoranza è il viaggiare senza rispetto. Gonfi di quel senso di onnipotenza che viene dal pensare di avere fatto il pieno dei diritti senza occuparsi manco un minuto dei doveri verso il prossimo.
Scrivo sull’ignoranza come paradigma. Non ci sono riferimenti politici né nostalgie di passato. Anche perché credo serva una coscienza civile accesa, resistente e attiva tra i cittadini pensanti, che impedisca ai nostri figli di finire sotto gli influssi mediatici e politici di un fascismo anche peggiore: razzista, xenofobo, da paura e stupidità. Ma anche allegro, modaiolo, disinvolto e arrogante, che ama i ragazzetti clonati tatuati ciondolanti con le birrette in mano. Precari, alla moda, trasgressivi e succubi. Cioè l’altra faccia della medaglia: da una parte l’incattivito utile, dall’altra lo schiavetto creativo contento, alla moda e metropolitano. Due aspetti della subalternità culturale inaccettabile che priva di senso critico e getta le basi per la resa finale.
Che fare quindi? Reinventare. Non rassegnarsi di fronte alla congiura dei mediocri che hanno occupato giornali e istituzioni, al dilagare dell’ignoranza come codice di potenza dialettica, al qualunquismo creativo e trasgressivo metropolitano. La storia ci insegna che anche quando tutto sembra perduto, esiste una possibilità di ripensare e individuare modi e culture proprie, rovesciando quelle egemoniche, globalizzate e terribili che sembrano invincibili. Cura e attenzione come forme di generosità, fuori dalle mode, spogliandosi dei goffi abiti che vogliono farci indossare a forza e che ci rendono ridicoli. Eticamente, esteticamente, come esseri umani, come figli e nipoti di chi ha dato il sangue per conquistare libertà e diritti.
Un giorno, quando i nostri pronipoti leggeranno dell’inciviltà di questo tempo scintillante e codardo dovremmo poter essere almeno ricordati come quelli che si opposero, che fecero la loro parte per coltivare cultura e non indossarono la camicia nera culturale – nonostante gli evidenti vantaggi immediati – perché preferirono di no.