
Se Trump credeva che bastasse ordinare trattative immediate, per poter chiudere la guerra con la Russia in Ucraina, dovrà rifare i suoi calcoli. E se le prime reazioni dal fronte moscovita non promettono nulla di buono, lo stesso Zelensky, pur cercando disperatamente di assecondare le paturnie del nuovo Presidente Usa, non può fare a meno di lasciar trasparire tutto il suo scetticismo. Ieri, parlando al forum di Davos, ha esortato l’Europa a pensare per sé, ammonendo tutti: in caso di firma, per fare rispettare gli accordi ci vorranno almeno 200 mila soldati europei a garantire la sicurezza della futura Ucraina.
Insomma, finita la campagna elettorale, ora Trump comincia quella di Russia. E la strada sembra tutta in salita, perché come diceva Talleyrand, gli Stati non hanno né amici e manco nemici, ma solo interessi. Esattamente come Putin, che nel caso specifico si muoverà solo se gli dovesse convenire, e non certo perché glielo sta chiedendo Trump. Dunque, risolvere la situazione nel Donbass è molto complicato e non bastano di sicuro gli ‘ordini esecutivi’ che, appena insediato, il Presidente americano sta emanando a raffica. Con la Russia ci vuole ben altro.
Per questo, la nuova Amministrazione repubblicana sta cominciando a usare bastone e carota, alternando blandizie e minacce. Trump è stato di poche parole e ha ‘consigliato’ a Putin di avviare trattative prima possibile, per evitare sgradevoli conseguenze. Come quella di ritrovarsi nuove e più pesanti sanzioni economiche. Gli ha fatto eco Marco Rubio, il nuovo Segretario di Stato, il quale ha sostenuto che «la pace conviene a tutti». Intanto, Trump ha pensato di spedire a Kiev un inviato speciale, che possa mettere tutti d’accordo e preparare il terreno per una soluzione diplomatica definitiva entro 100 giorni. La scelta è caduta sul tenente generale Keith Kellog, un veterano del Vietnam che in passato ha fatto parte del Consiglio per la Sicurezza nazionale, ma che non ha alcuna esperienza diplomatica.
Alcuni suoi critici lo presentano addirittura come una sorta di ‘yes man’, pronto ad assecondare Trump in tutto e per tutto. Rispetto alle posizioni espresse dai Repubblicani prima delle elezioni, inoltre, la scelta di Kellog appare quantomeno in controtendenza e tale da sollevare più di un dubbio nei russi. In particolare, sostiene il Wall Street Journal – «l’inviato speciale ha recentemente sostenuto, pubblicamente, l’idea che l’Ucraina possa ottenere guadagni sul campo di battaglia contro la Russia con l’assistenza degli Stati Uniti. Ha elogiato la decisione dell’Amministrazione Biden di dare armi più potenti all’Ucraina, affermando che ciò dà a Trump una leva nei prossimi colloqui e ha suggerito che più armi all’Ucraina potrebbero essere usate come un manganello per convincere Mosca a negoziare».
Con un curriculum di questo tipo, non ci si può certo stupire se al Cremlino abbiano subito accolto con un misto di freddezza e sarcasmo la nomina di Kellog a mediatore. A Washington, si dice che l’incarico gli sia stato conferito come logica conseguenza del suo contributo alla redazione del Piano di pace. In effetti, Kellog è coautore della bozza di proposta che sarà sottoposta a Putin e a Zelensky e che così viene sintetizzata dal WSI: «Il Piano, pubblicato dal think tank pro-Trump America First Policy Institute, prevede un cessate il fuoco e una soluzione negoziata, utilizzando carota e bastone per convincere russi e ucraini a trattare. In una concessione alla Russia, il Piano consiglia alla NATO di trattenersi dall’accettare l’Ucraina nella sua alleanza e di offrire a Mosca un po’ di sollievo dalle sanzioni, in cambio della firma di un accordo di pace. Il Piano – prosegue il Journal -minaccia anche un taglio degli aiuti militari a Kiev se il governo locale non dovesse proseguire i colloqui».
Messa così, però, evidentemente non funziona granché. Perché il documento, tra i russi, ha sollevato un vespaio di critiche. Sembra più una soluzione ‘coreana’, cioè un armistizio indefinito, che un vero trattato di pace. E Putin ha già detto che esige una sistemazione definitiva della crisi.
Come sentenzia il Journal, «a Mosca, i funzionari del Cremlino hanno deriso la road map come un ‘non-starter’, e ‘Komsomolskaya Pravda’, tabloid moto vicino a Putin,ha definito il Piano una combinazione di ‘pan di zenzero e fruste’, che non ha spaventato o allettato molto la parte russa. Il giornale – conclude il WSJ -si è anche scagliato contro il mediatore Kellogg, definendolo «una reliquia della Guerra fredda e del complesso militare-industriale statunitense».