Due guerre hanno occupato l’intero 2024. E le stesse due impegneranno buona parte del nuovo anno: forse tutto. Premesse concrete per immaginare una pace in così breve tempo, non ce ne sono. Forse tregue limitate per uno scambio di prigionieri o per far rifiatare gli eserciti. Ma gli elementi solidamente politici su cui costruire il necessario negoziato, sono evanescenti.
Ucraina e Gaza – i due conflitti – presentano grandi diversità. Il più avvantaggiato, per così dire, è il primo. Esistono delle certezze: Vladimir Putin sa che non potrà mai arrivare con le sue truppe a Kyiv, almeno militarmente. A Volodymyr Zelensky o a chiunque ne prendesse il posto (ora potrebbe accadere con elezioni troppo a lungo negate, NdR), è chiaro che la penisola di Crimea e probabilmente parte delle province orientali sono destinate a restare sotto il controllo russo.
È un punto di partenza negoziale. Sebbene per riconoscerlo, alle leadership di Kyiv e di Mosca servirebbero il pragmatismo e il consenso popolare che nessuna delle due parti ancora ha maturato.
La guerra di Gaza, cioè il conflitto fra israeliani e palestinesi, è tutta un’altra storia: non esiste alcuna parità o similitudine di deterrenza fra le due parti. Israele è uno stato, la Palestina non esiste. Il primo è di gran lunga superiore diplomaticamente, militarmente, economicamente, tecnologicamente; ha istituzioni e un sistema sociale. L’orribile ma efficace attacco di Hamas del 7 ottobre del 2023, non può essere ripetuto. Le forze armate israeliane potrebbero ricominciare daccapo la sistematica distruzione di Gaza.
Per raggiungere la fine del conflitto, cioè una pace con i palestinesi, dunque avviare una trattativa per uno stato indipendente, sarebbe Israele – il più forte – a dover fare la concessione più importante e necessaria: cedere territori. La questione è altamente improbabile. A meno che il governo di Gerusalemme non entri in crisi e nel 2025 non ci siano nuove elezioni capaci di cambiare la maggioranza politica del paese. Anche in questo caso non è scontato che in Israele possa esistere un esecutivo con il necessario consenso popolare e la volontà politica di concedere uno stato ai palestinesi.
Tutto questo sapevamo delle due guerre, le più importanti e pericolose in corso. Di molti altri conflitti minori, tensioni, crisi capaci di sfociare in uno scontro armato, potevamo analizzare pro e contro, possibilità di soluzione o di aggravamento. Poi è intervenuto una specie di super-jolly, una carta capace di sparigliare ogni gioco: Donald Trump. E tutto è diventato più imprevedibile.
Come un re taumaturgo, Trump promette di finire la guerra in Ucraina in un giorno; di scatenare l’inferno se non vengono liberati gli ostaggi israeliani di Gaza; di abbandonare la Nato nelle mani di Putin e Taiwan in quelle di Pechino. Ma allo stesso tempo ammonisce il russo se tentasse di bloccare la sua pace e minaccia il cinese di scatenare una guerra commerciale da XIX secolo (contenuti ancora da campagna elettorale, NdR)
L’elenco delle crisi e delle paci che Trump sarebbe in grado di produrre, è lungo quanto quello degli stati del mondo che abbiano una qualsiasi visibilità geopolitica, economica o commerciale. I governi sono come in trance, in attesa del 20 gennaio, quando il presidente giurerà. Ma è probabile che l’ipnosi duri molto di più, poiché non sarà in un solo giorno che Trump distribuirà pace o guerra nel mondo (per fortuna
Non c’è premier, presidente o dittatore che non rivendichi la sicura amicizia di Trump; che non dichiari di essere convinto che il re taumaturgo gli darà lo stato tanto atteso, gli restituirà quello sottratto, darà giustizia alla sua causa, punirà l’avversario. E tutti temono di non essere del tutto nelle sue grazie, pensando quale sia il modo più indolore per dire di no a una superpotenza, d’improvviso diventata più imprevedibile di una giunta militare centro-africana.
Il 2024 s’è chiuso con la sorpresa siriana e il ’25 è aperto col dubbio se questa getterà il paese ancora più nel caos o se invece produrrà un miracolo. “Gli Stati Uniti non devono averne niente a che fare”, ha scritto Trump a caratteri cubitali sul suo social media. “Non è la nostra lotta, non facciamoci coinvolgere!”. Nell’anno che viene la Siria potrebbe invece smentire le certezze di Donald Trump. Spiegargli che per quanto la superpotenza si isoli, selezionando solo ciò che le serve, nel mondo interconnesso del 2025 non c’è instabilità che prima o poi non coinvolga gli interessi americani.
Per la Russia (e anche la Cina, legata a Mosca da “una partnership senza limiti”), la sconfitta del regime di Bashar al-Assad e il ridimensionamento dell’Iran, sono uno smacco pesante. La Siria e il resto del Medio Oriente erano parte di ciò che Putin definisce “il vicino estero”: le regioni sulle quali l’imperialismo russo vuole tornare a contare. Ma se viene meno il Levante, nella lettura ottimistica che Putin fa della variabile Trump, si apre l’Europa.
Con un amico alla Casa Bianca, Francia e Germania in profonda crisi, una commissione europea dalla discutibile forza, alcune teste di ponte già operative come Ungheria e Slovacchia, è l’Europa il grande obiettivo di Putin. Non sarà guerra guerreggiata ma il nuovo grande conflitto politico, ideologico ed elettorale del 2025.