I tre punti caldi planetari
I tre “hot-spots”, i punti caldi planetari esistenti, cioè Ucraina, Medio Oriente e Mar Cinese meridionale, saranno influenzati dall’arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca. Certo, per quanto il nuovo Presidente americano possa cercare di mutare a modo suo il corso degli affari internazionali, va osservato che la campagna elettorale è già finita da un pezzo. Dalla propaganda alla dura realtà diplomatica, la sola “trattativa persuasiva” non basterà.
L’Ucraina è il primo “instant test” al quale Trump verrà sottoposto. Il piano preparato dalla sua squadra e che sembra avere già discusso con Zelensky, prevede una soluzione di tipo “coreano”. I rumors parlano di un armistizio “sine die” che rispetti l’attuale linea di cessate il fuoco, lungo il Donbass e la Crimea. I territori già conquistati resterebbero in mani russe. A quanto pare, nelle segrete stanze, per ora si sta trattando sullo scoglio principale, che non sono i chilometri quadrati persi dall’Ucraina, ma bensì le garanzie di sicurezza, con cui blindare il futuro di Kiev. I segnali indicano, in questo momento, la volontà comune, di tutti gli attori coinvolti, di trattare. Anche se non mancano le perplessità e soprattutto i nemici di una soluzione di questo tipo.
Alcuni analisti hanno addirittura ipotizzato l’esistenza di un “partito trasversale della guerra”, che soffiando sul fuoco della tensione mira a un aumento generalizzato ed esponenziale delle spese per la difesa. Con le relative commesse che ingrasserebbero il chiacchierato complesso “militare-industriale”. Solo complottismo? Forse si e forse no, perché, detto tra di noi, gli indizi ci sono tutti. Basti solo pensare che la soluzione diplomatica, ipotizzata ora, è la stessa di quella di cui si discuteva a Minsk quasi tre anni e mezzo milione di morti fa.
Ancora più incarognita è la situazione in Medio Oriente e nel Golfo Persico. Dopo il disastro della ritirata afghana, a Gaza e in Cisgiordania, il Dipartimento di Stato Usa ha dato il peggio di sé. Non ha saputo impedire che, in seguito ai massacri di Hamas del 7 ottobre, la risposta israeliana di “autodifesa” si trasformasse in una rappresaglia senza freni inibitori. La lobby ebraica americana ha pesantemente influenzato le scelte di Biden. E ora, con Trump, sarà pure peggio. Il problema è chiaro a tutti gli studiosi di politica internazionale: Israele è un Paese con una democrazia traballante, guidato da un premier estremista (Netanyahu), nelle mani di alcuni partitini messianico-nazionalistici. Il prezzo di una tale aberrazione politica lo stanno pagando i palestinesi, perché gli americani, semplicemente, tengono bordone alle strategie di pulizia etnica adottate dallo Stato ebraico a Gaza e Cisgiordania. Come, d’altronde, certificato dalle pronunce della Corte internazionale dell’Aja.
L’obiettivo attuale del Likud al potere, nel lungo periodo, è quello di costruire il “Grande Israele”, annettendosi Gaza e i Territori, aree del Sud del Libano e la fascia siriana ai piedi del Golan, verso Quneitra. Inoltre, l’obiettivo finale, irrinunciabile, resta quello di bombardare i siti nucleari iraniani.
Il terzo ‘punto caldo’ è lo Stretto di Taiwan, un’area cruciale per la navigazione nell’Indo-Pacifico, ma soprattutto una linea di confronto rovente tra Cina e Stati Uniti. Il motivo ufficiale della contesa riguarda la sovranità sull’isola di Formosa. Non è solo un problema di ‘bandiera’, ma soprattutto di sostanza: la Cina nazionalista, alleata degli Usa, è infatti la prima produttrice mondiale di microchip. Insomma, gratta gratta sotto la vernice del patriottismo spuntano sempre i dollari. Il guaio è che la contrapposizione sino-americana si sta allargando, toccando tutti i Paesi della regione, costretti, loro malgrado, a schierarsi.
Così anche chi non c’entra niente, come le Filippine, il Vietnam o la Malesia è obbligato a guardarsi le spalle, perché, come recita un antico proverbio indiano, “quando due elefanti combattono, è sempre l’erba a restare schiacciata”.