Dittature, rivoluzioni e future difficili democrazie

Raramente, o quasi mai, il passaggio alla normalità dopo una guerra esterna, una guerra civile o una rivoluzione, risulta facile e spesso, nonostante il desiderio dei protagonisti di superare un passato tragico e di normalizzare una situazione, possono intervenire diversi fattori a turbarlo. Insomma: giustizia e politica nei ‘dopoguerra’ pensando all’enigma tragico della Siria oggi, ma anche dei Libano o di Gaza. Guardando indietro a cosa la storia ci insegna.

Le carte geografiche e altri cambiamenti

Le carte geografiche, o meglio i loro mutamenti, costituiscono l’immagine più evidente delle conquiste, ma manca la descrizione dei cambiamenti interni degli stati, anche se talvolta cambia la lingua in cui erano state compilate prima. All’indomani della Prima guerra mondiale in Europa sparirono quattro imperi e numerose altre teste coronate, ma i processi di adattamento alle nuove realtà furono lunghi e complessi e non si esaurirono nella sola firma del trattato di Versailles, anzi.
Ci furono guerre dopo la guerra, ma altrettanto determinanti furono gli avvenimenti nazionali, ossia come i singoli affrontarono i cambiamenti sociali, le pesanti crisi economiche o nuove persecuzioni politiche e giudiziarie dei vincitori.
Sebbene se ne parli poco, i profughi – le persone costrette ad abbandonare il proprio paese o che lo fecero per scelta volontaria – furono milioni, in alternativa c’era la nazionalizzazione forzata.
La Società delle nazioni tentò di stabilire un accordo per la protezione delle minoranze, ma – anche nel timore di indebolire nuovi stati sorti dalla guerra ancora vacillanti – esitò o adottò nobili provvedimenti come il ‘passaporto Nansen’ che creava lo stato di rifugiato e lo proteggeva. Ovunque tuttavia i nazionalismi prevalsero e nel 1939 scoppiò una guerra peggiore della precedente.

Le epurazioni in Francia

Un caso particolarmente drammatico e che coinvolse decine di migliaia di francesi fu la cosiddetta «Épuration légale» che colpì gli accusati di ‘collaborazionismo’ con l’occupante nazista: in una prima fase – definita con un certo eufemismo ‘extragiudiziale’ – si contarono circa novemila esecuzioni sommarie; seguì una seconda fase di processi di fronte a tribunali regolari, in cui furono pronunciate millecinquecento condanne capitali, e una terza in cui furono giudicati a loro volta coloro i quali avevano commesso abusi nella prima.
Di fronte a una situazione di questa ampiezza, non stupisce che tra il 1947 e il 1953 la debole Quarta repubblica abbia promulgato ben tre amnistie. Indubbiamente molti responsabili furono puniti, ma tra le pieghe della burocrazia statale – oggi si chiamerebbe ‘deep state’ – rimasero nascosti casi che poi esplosero molto più tardi, come quello dell’ex prefetto di polizia Maurice Papon accusato di crimini contro l’umanità nel 1983.
L’orgoglio francese non mancò di sottolineare la fermezza con cui aveva trattato i collaborazionisti, ma – per quanto i numeri da soli non spieghino mai con chiarezza – emerge un dato contradditorio: mentre su centomila cittadini francesi quelli condannati furono meno di cento, in Norvegia furono quasi sette volte di più.

Il concetto di ‘giustizia di transizione’

A partire grossomodo dai primi anni del XXI secolo, soprattutto dopo il decennio balcanico e i massacri ruandesi, si cominciò ad eleborare nei dibattiti dell’organizzazione internazionale il concetto di ‘giustizia di transizione’ il cui scopo non era la semplice punizione dei responsabili dei crimini commessi, ma fare un passo avanti anche sul piano della riconciliazione nazionale.
In altre parole, riconsiderando gli esiti dei processi di Norimberga e di Tokyo dopo la Seconda guerra mondiale, si voleva evitare che il concetto dominante diventasse esclusivamente quello di ‘giustizia dei vincitori’. Gli scopi principali erano non consentire che i crimini finissero per essere dimenticati, rivelare pubblicamente i fatti anche più scabrosi, accertare le responsabilità dei singoli accusati, riconoscere tutte le vittime evitando la disumannizazione implicita dei numeri e delle statistiche e soprattutto impedire vendette o ritorsioni.
I processi di pace, o meglio di ‘pacificazione’, risultarono così articolati in diverse misure, che partivano dal ‘cessate il fuoco’ al disarmo delle parti, dall’instaurazione di un potere legittimo al rispetto dei diritti umani. In altre parole tutte le consuete azioni di una missione di mantenimento della pace, anche se le prime reazioni dei ‘pacificati’ furono spesso di tornare ad appoggiare esponenti dell’ex regime attraverso il voto espresso nelle prime elezioni democratiche.

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