Un tempo povero di senso

Ho conosciuto un attivista social, cacciatore di like e di condivisioni virtuali, sempre sul pezzo. Telefonino, iPad, pc, secondo il luogo dell’attivismo: in macchina, sul tram, a casa sul divano, alla scrivania, al bagno. Attivismo da seduta, si potrebbe dire. Alla fine della battaglia, sfiancato, si arma di telecomando alla ricerca di arene mediatiche utili per fomentare il suo battagliare.

Ho osato dirgli che la realtà è fuori dalla porta, ma in piedi, camminando, sui treni dei pendolari, nei luoghi di lavoro, nei campi, nelle scuole, nelle stanze dolorose della sanità pubblica, nei luoghi dove la cultura si compie ancora collettivamente e controcorrente.
La replica è stata sprezzante. Noi non capiamo. Oggi il mondo è questa roba qui. L’algoritmo va rispettato, anche temuto o aggirato; la lingua piegata alla necessità di comunicazione basica, a slogan, senza porsi il dubbio che sia una sceneggiata inutile, che gonfia l’egocentrico attivista di medaglie likate al valore del nulla, rende la realtà, la vita, i luoghi della democrazia riflessi opachi del gioco virtuale. Rumore di fondo, anche fastidioso. In un mondo che sicuramente è peggiore. Connesso, sommerso da una cascata di informazioni, ma che non si muove certo verso il bene, verso quel progresso giusto che si sognava.

È la modernità, ha chiuso bruscamente la discussione. La modernità, intesa acriticamente come quell’insieme di regole che definiscono la persona capace di credere nella redenzione del progresso anche di fronte alla prova evidente che è il contrario. Perché ogni battaglia civile e di libertà è stata picconata prima culturalmente e poi mediaticamente e politicamente, con il risultato che se oggi poni un problema vagamente democratico i pensatori della modernità algoritmica cadono dalle nuvole per mancanza di contatto con la vita.

Gli effetti?

La disabitudine alla democrazia, al dibattere faccia a faccia, a dialogare civilmente sostenendo idee diverse, a fare del pensiero un’azione, piccola che sia, ma azione nella realtà e non nelle grazie dell’algoritmo che muta secondo gli umori del padrone. E tutto questo provoca un’assuefazione che somiglia all’indifferenza di cui parlava Gramsci, ma con un contenuto profondamente differente per le caratteristiche culturali, sociali, mediatiche e politiche del tempo in cui viviamo. Un tempo ricco di significato, di messaggi, di sollecitazioni, ma povero di senso.

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