Tutto intorno il vuoto. Di sofferenza e solitudine. Di battaglie e sconfitte, cicatrici e passioni, visioni calpestate dagli scarponi ottusi. Di vite che ondeggiano nel rumore del tempo, prese dal virtuale, riempite di messaggi subliminali, di passioni indotte e attività frenetiche. Di non aver tempo, di non aver mai tempo. Di auto che si gonfiano ogni anno di più, di prepotenze piccole e grandi che chiedono spazio, di motori che rombano e arroganti chiedono alle persone di togliersi di mezzo. Di chiacchiere inutili, di politiche che a forza di luoghi comuni tendono a gestire la bruttezza dell’epoca, il deserto dell’etica, la solidità dell’ingiustizia come paradigma. Di messaggi violenti che servono a virilizzare una nazione. Di ingiustizia da difendere con leggi, manganelli, campagne promozionali, giganteschi consigli per gli acquisti che coprono i palazzi. Di certezze assolute e mediatiche, abbattendo diritti, abbattendo in realtà tutto quello che può mettere in dubbio il diritto del più forte, del più maschio, del più ricco, del più feroce a farsi giustizia da solo. Di incarnare un principio di giustizia mutevole secondo il vantaggio.
Il vuoto è culturale prima ancora che economico e politico.
È uno svuotamento lungo decenni. Un perdere frammenti di senso, di giustizia sociale, di civiltà, di bene comune, facendo finta che la modernità avesse una sua logica e che sarebbe stato intelligente coltivare l’innovazione degli stili, lo scintillare dell’ironia, la puntualità dei salotti amicali. Quel vuoto ce lo siamo coltivato nell’indifferenza, dimenticando la lotta per le cose giuste, piccole e grandi, perdendo di vista la democrazia, lasciando che i peggiori si organizzassero e ci radessero al suolo. E non capendo fino in fondo quanta importanza avessero, nel partecipare a quel vuoto, tanti apparenti compagni di viaggio, capaci di ritagliarsi uno spazio di visibilità e successo nel mondo peggiore.
Come fossero testimoni di possibilità alternative, e non – come sono in realtà – segmenti fondamentali di questo vuoto culturale.
Camminiamo sulle macerie, ma non ci arrendiamo. Non è giunto ancora quel tempo. Resistiamo per cultura, tradizione, vocazione. I piedi fanno male, il cuore è in affanno, il tempo passa feroce. Ma continuiamo a tessere politica, strada per strada, perché nella politica ci crediamo. Ad opporci, perché già troppi chinano la testa; a cercare di mettere insieme idee, visioni, futuro. A promuovere incontri veri, su temi veri, per fare comunità; non delegando più, mai più, coscienza civile e lotta ai soliti noti dell’arena mediatica, il cui ego ipertrofico ha causato e continua a causare danni.
Battendoci e scardinando quelle logiche che ci vorrebbero a casa col telecomando, osannanti o ululanti, o chattando idiozie nel virtuale mentre fuori, ogni giorno, ci asfaltano nel reale.