Il Tribunale penale internazionale per la ex-Iugoslavia (International Criminal Tribunal for the former Yugoslavia) fu il primo tribunale istitituito dopo la corte di Norimberga (1945) per giudicare diverse categorie di reati quali le violazioni della Convenzione di Ginevra del 1949, i crimini contro l’umanità, il genocidio e altre gravi violazioni delle leggi e delle consuetudini di guerra.
A parte le ovvie diversità del momento storico, ossia la fine della II Guerra mondiale da una parte e la dissoluzione iugoslava dall’altra, il tribunale presentava anche altri caratteri specifici: si trattava infatti di una corte che avrebbe giudicato solo su fatti accaduti in un determinato paese, mentre l’altra grande differenza consisteva nel fatto che non era prevista la pena di morte, ma l’ergastolo.
Un’altra particolarità risiedeva nel fatto che la corte, nel corso del dibattitto alle Nazioni Unite che avvenne durante la stessa guerra, fu vista anche come un elemento deterrente per far cessare le violenze e i massacri od ammonire alcuni dei protagonisti delle stesse. Per la procedura, ossia l’andamento dei processi, fu adottato un sistema di chiara derivazione anglo-sassone (common law) che prevedeva anche il cosiddetto ‘patteggiamento’, ossia un’ammissione di colpa da parte dell’imputato che avrebbe comportato una riduzione di pena: e in alcuni casi, ne nacquero furibonde polemiche.
L’altra grande questione fu che – di fatto – non esisteva un vero proprio ‘unico’ riferimento sui singoli reati che erano di volta in volta addebitati agli imputati, ma si faceva ricorso al vasto complesso delle norme di diritto dei conflitti armati che risultavano da strumenti normativi diversi. Ed effettivamente alcune sentenze, rispetto il rigore delle pene comminate a Norimberga o Tokio, apparvero molto più miti. Inoltre, al contrario di quanto avvenne a Norimberga dove furono processati i vertici del nazismo, nel corso dei dibattimenti sul banco degli imputati sedettero capi di governo o ministri, alti ufficiali dell’esercito o della polizia, ma anche personaggi di ruolo minore, come semplici comandanti di unità o di campi per prigioneri.
La critica più forte – e forse la più rivolta al tribunale fu infine che la maggior parte degli imputati appartenesse al gruppo etnico serbo al quale si volevano addossare le maggiori responsabiltà.
Il Tribunale Penale Internazionale per il Ruanda (International Criminal Tribunal for Rwanda) fu istituito da una risoluzione del consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite nel novembre 1994, quando cioè gli eccidi si erano conclusi dal mese di luglio ed era già stato sottoscritto un accordo tra le parti.
Le due principali categorie di reati prese in esame erano riconducibili al genocidio e alle gravi violazioni dei diritti umani, ma molto significativo fu anche il cosiddetto ‘processo ai media’ dell’odio, ossia ai responsabili delle stazioni radio ed emittenti televisive dalle quali quotidianamente si incitava ad uccidere gli appartenti all’etnia tutsi. Alcuni processi inoltre si svolsero davanti a corti nazionali (Belgio, Francia e Svizzera) nei confronti di singoli ruandesi.
Nel corso dei dibattimenti della corte fu pronunciata la prima condanna per ‘genocidio’ dopo che dal 1950 era stata riconosciuta questa particolare fattispecie di reato: Jean-Paul Ayakesu, sindaco di una cittadina che in precedenza aveva cercato di moderare la situazione, aveva infatti incitato poi centinaia di suoi concittadini a compiere le violenze più inaudite.
Un altro caso che ebbe notevole risonanza sui media fu quello di un popolare cantante accusato di aver incitato all’odio: se da una parte non risultò facile determinare la sua colpevolezza solo sulla base dei testi delle canzoni, dall’altra comparvero davanti alla corte numerosi testimoni che invece confermarono la sua presenza sui luoghi dei massacri.
Nella sentenza fu inoltre osservato che la diffusione di testi che privavano di connotazioni umane l’avversario, costituivano comunque il primo passo verso lo scatenamento dell’odio: senza un’incalzante propaganda non ci sarebbe stato insomma un genocidio.
Un altro aspetto importante dell’azione giudiziaria successiva al genocidio si svolse nelle piccole corti dei villaggi ruandesi nei confronti di imputati minori che si trovarono così faccia a faccia con i parenti delle vittime e che, nonostante le perplessità occidentali sul sistema, contribuì all’avvio di un processo di riconciliazione o almeno di condivisione della memoria. Nemmeno l’azione della corte per il Ruanda fu comunque del tutto esente da critiche perché spesso furono rilevate limitazioni ai diritti della difesa.