Il Papa non è sospettabile di pregiudizio antisraeliano o di semplificazione del problema della guerra a Gaza, l’osservazione laica a politica di partenza. Da mesi invita al rilascio degli ostaggi israeliani rapiti da Hamas, e il 7 febbraio, ricevendo una loro delegazione, ha definito l’antisemitismo “un peccato contro Dio”. Molto più di molte diplomazie europee, è stato fatto dal Vaticano per la pace, dal salvataggio e dalla cura di molti bambini malati a Gaza all’invio di aiuti umanitari, annota laicamente Andrea Muratore su InsideOver, mentre papa Francesco deve subire critiche e persino da un’amica personale come Edith Bruck, scrittrice italo-ungherese e superstite dell’Olocausto.
La Bruck ha detto a Repubblica che “genocidio”, nell’accezione usata dal Papa, ridimensionerebbe l’unico vero genocidio della storia, “quello che abbiamo vissuto noi: la Shoah“. Lettura della storia su cui discutere a lungo. “Dall’Armenia al Ruanda basterebbe ricordare, con tutto il rispetto per il dramma umano dei sopravvissuti della Shoah, quello organizzato dalla macchina di morte nazista non è stato, purtroppo, un progetto isolato”. Per fortuna, compaiono su Avvenire le parole di Anna Foa, storica ebrea che ha dedicato la vita allo studio dell’ebraismo e della Shoah. «Penso che questa sia una guerra di Israele contro il popolo palestinese e non solo contro Hamas».
Guerra di Israele contro il popolo palestinese. Accusa grave anche senza l’accusa di ‘genocidio’, tra le parole usate dal comitato speciale dell’Onu che proprio sul tema del possibile genocidio a Gaza, hanno portato all’incriminazione di Netanyahu alla Corte Penale Internazionale e al processo avviato dalla Corte Internazionale di Giustizia per genocidio dopo le denunce sudafricane. Le parole del Papa, sdoganano una discussione sulla condotta della guerra israeliana, che non si potrà mettere a tacere con accuse di “antisemitismo”. Come pochi mesi fa sull’Ucraina: Papa Francesco come “putiniano” per aver invitato l’Ucraina al “coraggio del negoziato”
Alcune domande poste da Anna Maria Brogi -Avvenire-, ad Anna Foa. «Di genocidio se ne parla molto nelle manifestazioni e nei tribunali, poco nel dibattito italiano e internazionale. Non se ne parla nel mondo ebraico della diaspora. Sembra un tabù antisemita. Non risuona in Israele nemmeno negli ambienti più ostili al governo, mentre termini quali “colonialismo” e “apartheid” sono usatissimi a livello accademico e su giornali come Haaretz, per quanto siano considerate antisemite dal governo di Netanyahu e da una parte della popolazione. La parola “genocidio” è forte. Ed è un bene che il Papa l’abbia pronunciata, che esca dai tribunali e che sia possibile discuterne».
Papa Francesco ha ricevuto in udienza ex ostaggi, nei mesi scorsi aveva incontrato i loro familiari. Perché le sue parole sulla legittimità di investigare su un eventuale genocidio a Gaza hanno suscitato reazioni tanto dure da Israele? «Discendenti di uno dei più terribili genocidi della storia, gli ebrei israeliani sono scossi da un brivido quando li si accusa di genocidio. Io sono convinta che lo stesso massacro del 7 ottobre sia stato un atto genocidario. D’altra parte, Netanyahu e il suo governo denunciano ogni critica come un atteggiamento antisemita e descrivono Israele come circondato da antisemiti. Qualsiasi voce dissenziente nei confronti del governo viene accusata di antisemitismo».
Del resto, a chi spetterebbe indagare per verificare se a Gaza è in atto un genocidio? Israele non riconosce la Corte penale internazionale dell’Aja e accusa l’Onu di essergli ostile… «Il fatto è che, prima la guerra in Ucraina e poi quella in Medio Oriente, hanno affossato tutto il processo di creazione di tribunali internazionali che dopo la Seconda guerra mondiale aveva protetto i civili nei conflitti. Dal 1945 in poi, l’elaborazione giuridica ha definito i reati di genocidio e di crimini contro l’umanità. Mi sembra che ora, nelle guerre in corso, tutto questo stia scomparendo. Lo stiamo perdendo».
«Personalmente, credo che siamo di fronte quanto meno a crimini di guerra. Parlare di genocidio, in questo momento, ha un forte valore simbolico per indicare il massimo di distruzione di un popolo. In una situazione, va ricordato, in cui Israele non consente la presenza di osservatori internazionali: nessuno può entrare a Gaza. Quanto al valore penale e giuridico del termine “genocidio”, lasciamolo agli organismi internazionali deputati a indagare».
«Dopo il 7 ottobre, gli ebrei israeliani si sentono incapaci di avere una adesione empatica con le sofferenze altrui. Tacciono. Anche se nel Paese c’è una forte opposizione nei confronti del governo. Il bisogno di tacere nasce dalla paura, dal fatto di vedere a rischio la sicurezza di Israele come Stato, la sua stessa esistenza. Dalla sensazione di accerchiamento. Nelle famiglie, i figli partiti per combattere creano legami fortissimi con l’esercito. Per chi dissente dall’opinione dominante, c’è grande difficoltà a far sentire la propria voce. Dovremmo aiutare di più coloro che lo fanno».