Dall’emergenza climatica alle guerre, fino alle crescenti disuguaglianze sociali, «il mondo sta peggio», ha dichiarato il presidente brasiliano Lula aprendo il 19mo vertice del G20. Un vertice che riunisce a Rio de Janeiro i leader del Nord e del Sud globale, del G7 e dei Brics che insieme rappresentano l’85% del Pil mondiale e l’80% delle emissioni climalteranti -sottolinea Claudia Fanti sul manifesto-. Una ‘superpotenza’ in numeri di popoli e di potenzialità, chiamata a confrontarsi sulle tre priorità: lotta alla povertà, transizione energetica e sviluppo sostenibile, riforma delle istituzioni di governance globale.
Una tassazione del 2% sui patrimoni dei circa 3mila miliardari globali, che garantirebbe di 250 miliardi di dollari l’anno da impiegare proprio a favore della lotta contro cambiamento climatico e disuguaglianze. Un impegno «non più rinviabile» secondo Oxfam, che ha denunciato numeri da spavento e da vergogna per alcuni. L’1% più ricco nei paesi del G20 detiene il 31% della ricchezza complessiva, contro appena il 5% della metà più povera. Non solo: la ricchezza di quell’1% è cresciuta del 150% in termini reali negli ultimi due decenni. Tuttavia, se l’impegno assunto finora dai paesi del G20, è stato quello di cooperare «per garantire che gli individui con un patrimonio netto molto elevato siano effettivamente tassati», è difficile che si farà un passo in questa direzione.
Il miliardario e prossimo presidente Usa Donald Trump ha ufficializzato il nome del ministro dell’energia della sua amministrazione: il miliardario Chris Wright, imprenditore del settore dei combustibili fossili e dell’energia atomica. Uno dei maggiori finanziatori della campagna elettorale di Donald Trump, avendo versato nel 2024 229mila dollari a favore della sua campagna, altri 41 mila dollari per il partito repubblicano e ulteriori fondi raccolti dalle attività di fundraising della moglie, precisa Andrea Capocci. Un negazionista del clima che ha più volte dichiarato Wright ha dichiarato che «non c’è alcuna crisi climatica né alcuna crisi energetica».
Sulla scrivania di Wright passeranno le principali decisioni in materia di transizione ecologica e di lotta al cambiamento climatico e il suo curriculum sembra quello meno adatto a occuparsi di entrambi i temi. Wright infatti ha sempre negato la necessità di riconvertire l’economia alle fonti rinnovabili e di contribuire allo sforzo internazionale contro il riscaldamento globale. Il successo economico di Wright, un patrimonio di 171 milioni di dollari, è legato all’industria del fracking, una tecnica di estrazione del petrolio e del gas naturale dalle rocce molto discussa per il suo impatto ambientale, che ha permesso agli Stati uniti di rendersi indipendenti dalle importazioni di petrolio.
Wright è l’amministratore delegato della Liberty Energy, una delle principali aziende di servizi fracking in Nordamerica, con un compenso annuo di 5,6 milioni di dollari. Un pozzo di petrolio statunitense su cinque è gestito dalla Liberty. In più, Wright siede nel consiglio di amministrazione della Oklo, azienda per la produzione dell’energia nucleare necessaria a alimentare i data center delle società di intelligenza artificiale. Non sorprende che sia da sempre critico verso ogni regolamentazione dell’uso dei combustibili fossili. Le sue aziende, insieme a diversi stati americani a guida repubblicana, ferocemente contrarie a regole sul clima e sui rischi legati alla transizione energetica per le aziende quotate in Borsa.
Al G20 brasiliano è stata invece lanciata ufficialmente l’Alleanza globale contro la fame e la povertà – con sede presso la Fao a Roma – che avrà come missione quella di sradicare la fame entro il 2030, ridurre le disuguaglianze e cooperare a livello globale a favore di uno sviluppo sostenibile. A farne parte, sono già 147 membri fondatori, tra cui 81 paesi (c’è anche l’Italia), insieme all’Unione europea e all’Unione africana, 24 organizzazioni internazionali, 9 istituzioni finanziarie e 31 ong ed entità filantropiche. «Costruire un futuro libero dalla fame e dalla povertà estrema». Ma se il Brasile si è impegnato a coprire metà delle spese di manutenzione della nuova Alleanza globale, resta da vedere quante risorse saranno effettivamente destinate all’iniziativa dai paesi industrializzati, più interessati al momento a investire sulle politiche di sicurezza.
Il presidente Lula potrebbe chiedere al neo ministro Wright una donazione analoga a quei 229mila dollari a favore della campagna elettorale di Trump, e i 41 mila dollari per il partito repubblicano. Battute a parte, il Brasile che a novembre del 2025 ospiterà la Cop30, dovrà lavorare per una mobilitazione globale contro il cambiamento climatico e promuovere investimenti nella transizione verde. Nulla indica però che, su questo terreno, i risultati del G20 possano superare le enormi difficoltà finora incontrate dalla Cop29 a Baku.
Che l’Europa sia debole e divisa non è una novità. Che lo sia anche ai negoziati per il clima, sì, lamenta Lorenzo Tecleme. Le trattative (i litigi) sui finanziamenti che dal mondo industrializzato dovrebbero andare verso il Sud globale per finanziare la transizione. Cosa vogliano i paesi in via di sviluppo è chiaro: 1.300 miliardi di dollari l’anno, elargiti a fondo perduto. Le intenzioni di Bruxelles, invece, non sono chiare. Dei 27 Ue, solo sette hanno firmato l’impegno. Assenti (e forse contrari) tutti gli altri, Italia compresa.
L’Ue non ha ancora presentato gli impegni nazionali previsti dall’accordo di Parigi. Ad affossarla – almeno per ora – l’accordo tra Popolari, parte dei liberali e tutte le destre. La cosiddetta maggioranza Venezuela – così chiamata perché si è materializzata votando a favore del riconoscimento del candidato anti Maduro a Caracas. «L’Unione europea è destinata a perdere una scadenza globale per i nuovi obiettivi climatici… mentre si prepara a fare una predica al mondo sull’importanza di questi obiettivi» è la sintesi, brutale ma onesta, di Politico.