Mentre il mondo si interroga su come sarà la Trumpnomics e Wall Street si sta ancora spellando le mani per gli applausi al nuovo Presidente, i rappresentanti del Sud del mondo, il Global South, riposizionano le proprie pedine sullo scacchiere dell’economia globale. Si comincia dall’America Latina dove a Lima in Perù si è tenuto il forum della Cooperazione economica Asia-Pacifico (Apec). L’Apec, creata nel 1989 con l’obiettivo di liberalizzare il commercio regionale , riunisce 21 economie che insieme rappresentano circa il 60% del Pil mondiale e oltre il 40% del commercio globale. In realtà, il forum è un’accozzaglia di paesi, dagli Usa alla Russia, dalla Cina a Taiwan, nemici, avversari e in generale concorrenti con strategie diverse. Un raggruppamento che, tanto per intenderci, è altra cosa dei Brics e del G20 appena iniziato.
Ma in questa fase economica in cui la geopolitica è il fattore chiave, anche l’inconcludente vertice dell’Apec fornisce segnali che potrebbero raffredare gli entusiasmi del nuovo corso americano.
Il vertice di Lima è servito ad accendere i riflettori proprio sul Sud America, considerato fino a ieri il cortile di casa degli Stati Uniti. L’indifferenza per il continente sudamericano che ha attraversato il dibattito sull’economia internazionale degli ultimi anni, non ha però riguardato la Cina. Infatti, Xi è stato accolto in Perù in pompa magna per inaugurare il primo porto dell’America Latina finanziato dalla Cina, a Chancay, a nord di Lima. Un’enorme infrastruttura da 1,3 miliardi di dollari dove passerà buona parte dello sviluppo economico del Sud America, ma soprattutto le materie prime dirette in Cina. Il nuovo porto permetterà di ridurre di 10 giorni i tempi di trasporto verso la Cina per tutti i paesi limitrofi del Perù, il Brasile su tutti, e potrà fornire uno sbocco sul Pacifico riducendo la dipendenza dai porti americani e dal canale di Panama.
Non bastasse l’accoglienza da protagonista riservata al leader cinese, il summit dell’Apec ha registrato l’incontro di Xi con Biden nella rappresentazione simbolica di un pezzo di potere americano in fase di smobilitazione. Il leader cinese ha affermato l’importanza del commercio internazionale e tuonato contro il protezionismo. Soprattutto ha inviato un messaggio a Trump, il convitato di pietra di quell’incontro: la globalizzazione è viva e vegeta. A differenza dell’Africa, altra miniera dell’industria cinese, l’America Latina rappresenta non solo una fonte di approvigionamento, ma un polo strategico per il controllo dell’area. Gli osservatori statunitensi hanno giustamente lanciato l’allarme sulla possibilità che i diritti operativi esclusivi di Cosco, l’azienda di logistica portuale cinese, consentano alla marina e ai servizi segreti di Pechino di usare il porto per spiare le navi militari e commerciali statunitensi.
Per costruire il porto di Chancay, lo scorso giugno il governo peruviano ha modificato la legge del ‘Sistema Portuale Nazionale’ del Perù per cedere il controllo a una società privata, la cinese Cosco in questo caso. Ingerenze che gli Stati Uniti hanno praticato in Sudamerica per ottant’anni, con le buone e con le cattive, e che ora hanno un nuovo attore. Così mentre in patria il fenomeno Trump spinge in alto le borse in nome di una nuova era protezionista e ultraliberista, la Cina è sempre più vicina a tutte le aree strategiche del commercio mondiale, in particolare dove ci sono le materie prime. Che servono anche agli Stati Uniti, fino a prova contraria.
Tra le nubi della retorica Maga (‘Rendiamo di nuovo grande l’America’) che oscurano la globalizzazione, i fari cinesi ritornano ad illuminare i mercati strategici di Asia, Africa e America Latina dove Pechino avanza inesorabilmente. Allora il mondo economico di Donald Trump potrebbe apparire troppo piccolo per il vorace mercato americano. Nel qual caso ci sarebbe Marte per trovare nuovi affari. Ma a quello ci pensa Elon Musk.
Prevale lo scetticismo sulle decisioni che potranno essere assunte nella due giorni preparata dal presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva, sebbene i partecipanti arrivino con un’agenda particolarmente ricca siglata all’Onu lo scorso 25 settembre dai ministri degli Esteri in preparazione dell’incontro dei capi di Stato e di governo, l’analisi di Andrea Lavazza su Avvenire. “Call to Action on Global Governance Reform” per la riforma e la modernizzazione dei principali organismi internazionali, a partire dall’Onu e dall’Organizzazione Mondiale del Commercio. E la revisione delle quote di prestito al Fondo Monetario Internazionale, di fare passi avanti nel dibattito sul debito estero dei Paesi a basso reddito e sulla tassazione dei grandi patrimoni.
«Lavoriamo insieme perché le istituzioni multilaterali sono screditate. La nostra capacità di risposta è ostacolata dalla mancanza di rappresentanza nelle organizzazioni internazionali. Il Sud globale deve essere incluso pienamente nei principali forum decisionali», ha detto Lula, presidente di turno del G20, che rappresenta i due terzi del commercio e della popolazione mondiale e l’80% del Pil globale. In particolare, si vorrebbe rafforzare il ruolo dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, per riequilibrare i poteri rispetto al Consiglio di Sicurezza, di cui si mira ad ampliare la composizione. Ma la misura che più ha fatto discutere, è quella del prelievo sui super-ricchi.
Secondo le stime di Zucman, lo 0,01% della popolazione con maggiore ricchezza paga un’aliquota fiscale effettiva di appena lo 0,3%. In questo modo si potrebbero raccogliere fino a circa 240 miliardi di euro l’anno da quasi 2.800 miliardari. Fondi da impiegare per interventi contro fame, povertà e cambiamento climatico. Proprio dalla Cop 29 di Baku arriva l’allarme sul deterioramento ambientale che, però, difficilmente verrà ascoltato. Mentre la tassazione sui patrimoni promossa da Brasile e Francia è fortemente contrastata da Stati Uniti e Germania, e l’ombra della prossima Amministrazione Trump ostile a drastiche limitazioni per i combustibili fossili.
Il sentimento dominante è quello dell’attesa per le decisioni diplomatiche (sulle guerre in Ucraina e Medio Oriente) ed economiche (la possibile svolta protezionistica contro Cina ed Europa) degli Stati Uniti, che metterebbero in stallo i progetti di riforma degli organismi internazionali e, per la conseguente politica isolazionista Usa, aumenterebbero le turbolenze globali. D’altra parte, Trump si dipinge come pacificatore capace di instaurare dialoghi privilegiati, compreso Vladimir Putin. Questa incertezza dominerà il vertice, con tentativi di riposizionamento in previsione degli sviluppi su diversi scenari internazionali.
Ne esce un quadro frammentato, specchio di un disordine che non solo alimenta conflitti ma dimentica pure le urgenze dello sviluppo che ancora manca in tanti Paesi e del Pianeta che, dagli incendi in Canada all’alluvione di Valencia, lancia allarmanti segnali sempre più frequenti.