L’alternativa del Diavolo: cosa aspettarci da quei due

Una sorta di referendum mondiale dove sono soltanto alcuni privilegiati a poter decidere. La scelta tra lo strapotere con qualche delicatezza, e lo stesso strapotere con la rozza prepotenza della post democrazia. Votano gli americani ma ad aver paura siamo tutti noi – almeno dovremmo – senza neppure lo sfogo della tifoseria modello calcistico che aiuta a distrarci dal peggio. Perché se il ‘peggio facile’ è il bestione Trump, la bella Kamala fa meno paura ma poco garantisce dopo la delusione Biden.
O Kamala o Donald, cosa si prepara in casa Usa lacerata e predisposta alla violenza, e poi nel mondo, almeno nelle principali aree di crisi e di guerra.

Una fragile superpotenza allo specchio

L’America tra Donald Trump e Kamala Harris: il Paese si specchia e non può piacersi. Voto rissoso, segnato da frammentazioni sociali, economiche, identitarie degli States. I cittadini dell’impero si spaccano su cosa voglia dire essere americani, su quale futuro per ‘la terra delle opportunità’ che ora appare solo leggenda. Andrea Muratore, su InsideOver cita Edward Luttwak quando confronta l’America contemporanea all’«l’Urbe dei Cesari». Roma, prosperò quando seppe trovare concordia politica interna, leadership che proiettavano la forza militare in egemonia culturale, rapporti chiari con alleati e clientes, una classe dirigente coesa nel definire l’interesse collettivo. Declinò, quando la polarizzazione interna prese il sopravvento e l’Impero si spaccò tra anarchie militari e annacquamento dell’identità romana (americana).

Il possibile “golpe bianco” Usa

Contando sul fatto che abbiate letto l’articolo precedente che illustra il pasticciato sistema elettorale statunitense, facile capire i molti trucchi possibili, e con Trump in gara, certi. Scenario secondo gli ultimi sondaggi, è che Kamala Harris ottenga una risicata maggioranza: 270 voti contro i 268 a Trump. E la mancata certificazione di uno Stato ai voti che fanno la maggioranza e la nomina del presidente passerebbe alla Camera a maggioranza repubblicana. Nel 1800 furono necessari 36 ballottaggi per scegliere tra Thomas Jefferson e Aaron Burr. Difficile che mercoledì mattina sia chiaro chi sarà il presidente degli Stati Uniti, avverte Fabrizio Tonello. Probabile un caos di conteggi e ricorsi e il mondo con il fiato sospeso per giorni, o settimane. E il risultato finale potrebbe non essere quello voluto dai cittadini.

Comunque per i palestinesi cambia poco

Per chi vive a Gaza e in Cisgiordania i due pretendenti alla Casa bianca sembrano «due facce della stessa medaglia», rileva amaro Michele Giorgio sul Manifesto. «Solo l’Anp prega per la candidata democratica. Netanyahu non ha dubbi, aspetta la vittoria di The Donald per avere mano libera. Ma è grato a Biden per gli aiuti militari ricevuti, per questo tace». Palestinesi, libanesi e arabi negli Usa, frustrati e arrabbiati con Biden-Harris che ha fatto poco fermare l’offensiva distruttiva di Israele contro Gaza e in Libano. Il peggior Trump degli Accordi di Abramo tra lo Stato ebraico e quattro paesi arabi, il riconoscimento di Gerusalemme e del Golan siriano come parte di Israele e la legalizzazione di fatto delle colonie israeliane in Cisgiordania. Ma alcuni pensano che Trump e le sue reazioni istintive potrebbero spingerlo a scelte scomode per Israele.

L’Israele ebraica largamente con Trump

Gran parte della popolazione ebraica vuole Trump presidente, perché è sicura che sarà con lo Stato ebraico senza fare pressioni e sollevare dubbi. Un sondaggio della tv Canale 12 nei giorni scorsi dava il 66% degli israeliani con l’ex presidente Usa e solo il 17% con Harris. Netanyahu e il suo governo restano in silenzio, ma non aspettano altro che il ritorno di Trump alla Casa Bianca. «Non sorprende – dice il professor Gilboa, analista del Centro Besa di Tel Aviv -, Netanyahu è grato a Biden per l’aiuto militare che ha dato a Israele. Però il presidente uscente non è in corsa e Kamala Harris non convince affatto il premier, perché appare influenzabile dagli ambienti più progressisti del Partito democratico e ha più volte criticato Israele per la situazione a Gaza. Con Trump, invece Netanyahu si sente tranquillo».

La sorte dell’Ucraina nell’urna americana

La guerra in Ucraina è in una fase molto critica per Kiev con un’Europa stanca di tensioni e oneri insostenibili. L’impegno degli Stati Uniti in Europa dell’est è stato al centro della campagna elettorale dei due candidati alla Casa Bianca. Donald Trump vantato che se sarà eletto porrà fine al conflitto «in 24 ore», senza mai specificare come. Kamala Harris, ha ribadito l’importanza di sostenere l’Ucraina «per tutto il tempo necessario», in continuità con il mandato di Joe Biden. Ma il contesto ucraino mette in discussione i rapporti decennali tra Usa e Ue a partire dall’alleanza militare, avverte Sabato Angieri. La Nato, rilanciata e allargata da Biden, è considerata da Trump «un fardello» e il candidato repubblicano ha chiarito che «se l’Europa non farà la sua parte» gli Usa potrebbero anche rifiutarsi di intervenire in caso di attacco a uno dei membri.

Crisi militare e politica ucraina e Trump

Nel Donetsk le truppe russe continuano ad avanzare, l’operazione nel territorio russo del Kursk si è rivelata un azzardo. Trump ha utilizzato questo scoramento come arma della sua campagna elettorale. Ha descritto Kiev come un peso, e i miliardi di dollari di armamenti che Washington ha inviato all’esercito di Zelensky, «soldi buttati e sottratti al benessere degli americani». Dopo aver accusato gli alleati europei di «non fare abbastanza», lasciando intendere che se non aumenteranno le spese per la difesa gli Usa abbandoneranno il Vecchio continente. Oltre lo show populista, c’è la scelta repubblicana al disimpegno su alcuni fronti a favore di una maggiore attenzione al «vero nemico», la Cina.

E l’Ucraina potrebbe improvvisamente perdere il suo ruolo di «avamposto della democrazia contro il dittatore Putin», e diventare solo un conflitto regionale di cui una Casa bianca di orientamento trumpiano non ha alcun bisogno.

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