La prima narrazione è quella che i governi occidentali (o almeno la maggioranza, pur con qualche riserva) raccontano alle rispettive opinioni pubbliche, ossia che l’Ucraina possa vincere la guerra o quantomeno non perderla. Da qui la continuità degli aiuti, il sostegno politico, le promesse ancora vaghe di possibile adesione alla Nato e alla Ue. Tutto al prezzo di decine di migliaia di morti, milioni di sfollati e enormi distruzioni per un tempo indefinito.
La seconda narrazione è che dopo il massacro del 7 ottobre perpetrato dai terroristi di Hamas, è che Israele abbia il diritto di vendicarsi a 360 gradi, da Gaza al Libano, dall’Iran alla Siria. Con qualsiasi mezzo, a prescindere dalla morte di migliaia di innocenti, soprattutto bambini. Negli ultimi giorni, l’attacco all’Onu e l’alto numero di vittime collaterali hanno modificato un po’ l’atteggiamento ufficiale, ma fino a ieri la critica all’azione di Israele era parente del crescente antisemitismo. Un antisemitismo che in parte alligna da sempre in una minoranza di menti malate, ma che in buona parte è alimentato dalle immagini di Gaza, anche se si preferisce la narrazione di un riflesso virale alimentato da ambienti politici e culturali e dal pregiudizio.
Comunque sia, nessuno sembra seriamente intenzionato a fermare i piani di Gerusalemme, così come nessuno — almeno ufficialmente — sembra volere consigliare un atteggiamento più prudente al presidente ucraino Zelensky. Avanti così dunque, fino alla data del calendario, ovvero fino alle elezioni americane, il cui risultato — in un senso o nell’altro — è visto dai belligeranti come una benedizione o una sciagura a seconda di chi le vincerà.
E mentre le narrazioni parallele continuano, il presidente ucraino Zelensky e il premier israeliano Netanyahu perseguono i loro piani. Quello annunciato da Zelensky al Parlamento è addirittura un «piano di vittoria», una strategia di «pace attraverso la forza» che dipende in larga misura dal sostegno degli alleati, criticati perché gli aiuti non sono sufficienti e i tempi di adesione alla Nato non precisati. «Se i partner sono d’accordo, dopo la guerra prevediamo di sostituire alcuni contingenti militari statunitensi di stanza in Europa con unità ucraine», ha annunciato il presidente per sollecitare maggiore sostegno oggi. Dal suo punto di vista, la critica è giustificata, ma fa anche capire l’impossibilità della vittoria e allontana la prospettiva della fine delle ostilità.
In particolare gli Usa insistono sul fatto che la guerra con la Russia deve finire prima che l’Ucraina possa entrare nell’alleanza. A differenza di Israele a Gaza e in Libano, l’Ucraina non ha di fronte guerriglieri mimetizzati fra la popolazione civile, ma una potenza nucleare e un esercito largamente superiore, peraltro in grado di moltiplicare mezzi ed effettivi, senza preoccuparsi troppo delle perdite di fronte all’opinione pubblica interna. Viene in mente la tesi del generale Giap in Vietnam, il quale non si preoccupava che il rapporto dei caduti fosse di dieci a uno a suo sfavore, avendo risorse umane infinite.
Zelensky a sua volta deve invece fare i conti anche con la crescente opposizione politica e civile, le diserzioni, le defezioni nella sua cerchia di consiglieri. «Sono fermamente convinto che un giorno l’Ucraina sarà un membro della Nato, e applaudirò quando quel giorno arriverà», ha dichiarato il Segretario generale della Nato Mark Rutte, ma ha aggiunto: «Spetta agli alleati discutere tra loro come portare avanti la questione». Un modo per dire che per il momento non se ne fa nulla, nonostante i roboanti e puntuali annunci. Zelensky ha anche riaffermato che i partner dell’Ucraina devono permettere a Kiev di colpire in profondità il territorio russo, cosa che molti Paesi negano per evitare ritorsioni russe dirette. Il che equivale a proseguire la guerra senza il permesso di difendersi davvero.
L’Ucraina nel frattempo moltiplica accordi con partner stranieri per reperire i fondi per la ricostruzione e attrarre investimenti, ma in questo modo, di fatto, svende al miglior offerente le risorse minerarie e agricole. Grano, uranio, titanio, litio. Zelensky parla di cooperazione economica e di sicurezza postbellica, ma esclude nel frattempo qualsiasi prospettiva di negoziato sui territori contesi e oggi in gran parte sotto il controllo delle forze russe. «Il piano di vittoria dell’Ucraina è un piano per rafforzare il nostro Stato e la nostra posizione. Per essere abbastanza forti da porre fine alla guerra. Per assicurarci che l’Ucraina abbia tutti i suoi muscoli», ha detto il presidente. «Siamo consapevoli che l’adesione alla Nato è una questione che riguarda il futuro, non il presente», ma ha aggiunto che un invito offerto subito mostrerebbe a Vladimir Putin l’errore dei suoi calcoli geopolitici. Kiev vorrebbe anche che le sanzioni internazionali contro la Russia fossero intensificate, ma in realtà le sanzioni sono sistematicamente aggirate.
In Medio Oriente, gli obiettivi di Tel Aviv sono ormai chiarissimi: sfruttare al massimo il diritto di vendicare il massacro del 7 ottobre per annientare Gaza, estendere il controllo su Cisgiordania e sud Libano, chiudere la partita con Hamas e Hezbollah e, in buona sostanza, allontanare forse per sempre la prospettiva di uno Stato palestinese riconosciuto. A differenza dell’Ucraina, Israele può contare sulla superiorità militare e tecnologica, sul sostegno fino a ieri incondizionato degli Usa e, finora, su una sostanziale impunità. Quindi la narrazione del diritto alla difesa e alla ritorsione continua, così come continua quella della possibile vittoria dell’Ucraina.
Chi prova a smentire queste narrazioni rischia l’accusa di antisemitismo o quella ancora più infamante di sostenere i piani di Putin. O entrambe. In attesa che il nuovo inquilino della Casa Bianca cominci a legittimare qualche altro punto di vista. Altrimenti la prospettiva di una progressiva escalation su entrambi i fronti e allargata allo scenario mondiale non è più da escludere. Già oggi, il fronte di guerre parallele o per procura si sta estendendo all’Africa, mentre la Cina mostra i muscoli sui mari d’Oriente. Sarebbe il momento di un’Europa forte, autorevole, in grado di parlare con una sola voce, per dire che i valori della democrazia e del diritto internazionale muoiono se invocati a senso unico. Altrimenti la carneficina continuerà, sia nei campi innevati dell’Ucraina, sia fra le macerie di Gaza.