Assassinio politico in guerra, azione militare o crimine?

L’attualità ci sta sommergendo di tanti orrori da anestetizzare la nostra capacità di distinguere tra le diverse azioni militari che si inseguono. Leader politici o militari uccisi anche in Paesi formalmente neutrali e spesso a costo di centinaia di vittime innocenti attorno. Atto di guerra che giustifica qualsiasi violenza contro? Il fatto che le persone colpite possano essere a loro volta degli assassini, giustifica l’azione criminale a danno di innocenti attorno? Quale è il confine tra ‘atto di guerra’ e ‘crimine di guerra’?
Nessuna citazione d’attualità, fatti e tutti ben noti, e qualche memoria storica simile da aggiornare, sapendo tutti, che la storia la scrivono sempre i vincitori.

L’atto di guerra a renderla ufficiale

Memria facile e immediata l’assassinio a Sarajevo dell’arciduca Francesco Ferdinando d’Asburgo, Il 28 giugno 1914, che -versione storica generalizzata-, provocò lo scoppio della Prima Guerra mondiale. Un atto di odio singolo, e dietro molto di più? A parte le gravi mancanze nell’organizzazione della sicurezza attorno al personaggio, si discusse e si continua a farlo) sui reali mandanti dell’attentato.
Gavrilo Princip, esecutore materiale, fu arrestato nell’immediatezza del fatto assieme ad altri, ma emersero da subito numerosi interrogativi. I cospiratori avevano ricevuto un consistente aiuto esterno in denaro, come pure le armi impiegate, per colpire una personalità rappresentativa dell’impero austro-ungherese per la politica condotta nei confronti delle popolazioni slave nei Balcani.
Nonostante un robusto apparato indiziario, secondo molti storici la prova assoluta che ad organizzarlo siano stati i servizi segreti del regno di Serbia non sembra ancora definitiva. Il colonnello Dragutin Dimitrijević, nome in codice ‘Apis’, che comunque aveva organizzato l’associazione clandestina alla quale aderivano gli attentatori, fu fucilato per alto tradimento dagli stessi serbi nel 1917, nonostante i grandi meriti che gli erano stati riconosciuti nell’eliminazione della famiglia reale degli Obrenovic nel colpo di stato del 1913 e durante le guerre balcaniche. Resta il dubbio che si sia voluto far tacere per sempre un testimone scomodo.

La guerra doveva continuare

Il 30 dicembre 1916, a Pietrogrado, fu assassinato il monaco ortodosso Grigórij Raspútin – confidente della coppia imperiale russa sulla quale esercitava una notevole influenza – e soprattutto ostile alla prosecuzione della guerra che ormai era sul punto di disgregare il secolare impero degli zar. Esecutore fu un giovane aristocratico imparentato colla stessa famiglia imperiale: il principe Feliks Jusupov aveva infatti sposato Irina Alessandrovna, nipote dello zar Alessandro III.
I principi Jusupov disponevano delle immense risorse minerarie di intere regioni della Siberia e Feliks, che aveva studiato in Inghilterra, si era legato ad un gruppo di nobili che avversava in tutti i modi la presenza del monaco a corte e il suo ruolo invadente perfino nella scelta di ministri o generali: dietro la condotta eccentrica e scandalosa di Raspútin esisteva infatti un sistema molto ramificato di potere e corruzione.
Jusupov si assunse la responsabilità materiale del delitto, ma meno noto è che il servizio segreto britannico avesse inviato in Russia come agente un compagno di studi di Jusupov ad Oxford. Un ritiro dell’impero russo dalla guerra avrebbe riversato infatti contro Gran Bretagna e Francia tutte le forze tedesche impiegate sul fronte orientale. Ovviamente negli archivi britannici non esiste documentazione che confermi i rapporti tra Jusupov e l’agente inglese, ma è singolare come – dopo la rivoluzione d’Ottobre – Jusupov sia stato messo in salvo da una nave da guerra britannica, opportunità negata alla stessa famiglia imperiale russa che finì sterminata in una cantina di Ekaterinenburg.

L’ammiraglio giapponese che non voleva la guerra

Il 18 aprile 1943 una squadriglia di caccia americani abbatté – nonostante la scorta – due bombardieri giapponesi e un caccia Zero che stavano sorvolando l’isola di Bouganville, nell’arcipelago delle Salomone. I giapponesi subirono una ventina di perdite, ma tra queste c’era l’ammiraglio Isoroku Yamamoto, comandante in capo della flotta. Fu lasciarono intendere che si fosse trattato di un caso, ma in realtà era stato un vero e proprio agguato, perché gli americani sapevano che a bordo di uno dei bombardieri si trovava l’ammiraglio.
Era accaduto che il servizio informazioni della marina statunitense avesse intercettato tre messaggi giapponesi sul volo programmato dell’ammiraglio, e dalla loro decrittazione era risultato il piano di volo. Si pose allora la questione se fosse opportuno o meno abbattere l’aereo: eseguire il piano e vendicare l’attacco di Pearl Harbor avrebbe anche significato far comprendere che i messaggi segretissimi potevano essere decrittati.
Yamamoto, per quanto possa sembrare strano, aveva ideato il piano dell’attacco non perché fosse favorevole alla guerra con gli Stati Uniti – tutt’altro – ma perché gli era sembrato che solo una violenta sorpresa avrebbe inflitto un danno agli americani. Quando fu abbattuto l’aereo, Yamamoto, idolatrato dai soldati e dai marinai giapponesi, aveva appena iniziato un giro di ispezione nel Pacifico per risollevare il morale dopo la sconfitta di Guadalcanal.

Altri Articoli
Remocontro