
Dazi e tasse di transito costituirono per secoli l’incubo dei mercanti, secondo forse solo a quello dei briganti: a parte il valore della merce in se, era richiesto anche un pagamento specifico per l’ingresso in uno staterello, l’approdo in un porto o il semplice passaggio di un ponte. L’estrema frammentazione territoriale italiana costituì quindi un freno fastidioso allo sviluppo dei commerci.
I due stati italiani che ne trassero però maggior vantaggio furono indubbiamente Venezia e Genova. A Venezia, sin dal XIII secolo, fu organizzato un sistema capillare per la riscossione e soprattutto per reprimere il contrabbando per mare, attraverso i corsi d’acqua e i valichi frontiera. Il sistema fu centralizzato a Venezia, che divenne il punto obbligato di approdo delle merci provenienti dall’estero: qui le navi erano ispezionate e un apposito ufficio riscuoteva e concedeva il permesso di transito e di commercio, in assenza del quale navi e merci erano sequestrate e rivendute dalla repubblica.
A Genova l’organizzazione fu ancora più raffinata perché coinvolse in breve la potente struttura finanziaria del Banco di San Giorgio che assunse tra i suoi poteri la vigilanza diretta sui traffici, la riscossione dei dazi e perfino la nomina di propri giudici nei tribunali destinati a discutere di controversie commerciali e a condannare le violazioni.
Dopo lo sviluppo delle rotte atlantiche il Mediterraneo perse di importanza, ma strutture analoghe sorsero in tutta Europa.
Tra il 1906 e il 1911 si svolse un curioso conflitto economico tra il piccolo regno di Serbia e il potente impero d’Austria, originato da una controversia relativa all’importazione di prodotti agricoli serbi: poiché il principale prodotto di cui fu vietata l’importazione in Austria fu la carne di maiale, l’episodio passò alla storia come «la guerra dei maiali», una denominazione che oggi potrebbe sembrare ironica, ma si trattò invece di un capitolo significativo nella storia che portò allo scoppio della Prima Guerra mondiale.
L’impero d’Austria decise di sospendere le importazioni dalla Serbia per due motivi: da una parte esercitare una pressione politica sui serbi che avevano stretto un accordo commerciale con la Bulgaria, ma dall’altra proteggere la propria produzione agricola – soprattutto ungherese – dalle derrate serbe che costavano meno.
L’altro motivo – meno sbandierato – fu che la Serbia, che fino a quel momento aveva acquistato armi e munizioni dall’Austria ai prezzi stabiliti da questa, si stava rivolgendo in quel momento alla Francia più competitiva soprattutto per le munizioni.
A questa piccola tensione se ne aggiunsero però altre e si produsse alla fine un nuovo schieramento tra gli stati balcanici, nonostante per un ventennio la Serbia si fosse considerata fino a quel momento fedele alleata di Vienna. Il tentativo austriaco di isolare economicamente la Serbia insomma fallì, anche per l’altro errore commesso da Vienna di annettere all’impero la Bosnia nel 1908, mentre aumentò la conflittualità che avrebbe provocato lo scoppio della Grande Guerra.
Dopo la crisi del 1929 gli Stati Uniti reagirono con una politica protezionista e con l’applicazione di dazi doganali sulle importazioni. Il presidente degli Stati Uniti Herbert Hoover, nonostante fosse personalmente contrario e avesse ricevuto analogo parere da Henry Ford e da oltre mille docenti di economia delle università, non oppose il veto ad una legge proposta dal senatore Reed Smooth: il senatore – uno spregiudicato imprenditore dello Utah e celebre milionario del tempo – aveva convinto infatti alcuni repubblicani che la crisi di Wall Street era stata provocata delle ‘eccessive importazioni’ soprattutto dall’Europa.
Più di ventimila prodotti stranieri nell’arco di quarantotto ore aumentarono fino al sessanta per cento e successe il finimondo. Dopo proteste della Gran Bretagna e della Francia, che a loro volta bloccarono le importazioni dagli Usa provocando un rallentamento della locomotiva economica yankee già in crisi, si aggiunsero quelle dell’Italia e, seppure più flebili, anche della Germania. In breve anche l’Europa fu travolta da un’ondata protezionista che si rivelò particolarmente devastante nei paesi dell’Europa orientale.
Crebbero insomma le tensioni nei confronti degli Stati Uniti e – come spesso avviene quando un minacciato non si rende conto di essere egli stesso la causa della propria minaccia – l’esercito e la marina elaborarono un piano per invadere il Canada e occupare i Caraibi per minacciare le rotte inglesi in Atlantico.
Guerre vere iniziate a dazi e gabelle, l’oggi tra ignoranza e prepotenza