
Un allarme che viene così espresso in un report dell’autorevole think tank mediorientale ‘al-Monitor’: “Mentre Iran e Israele si avviano verso la guerra, l’Arabia Saudita cerca un riavvicinamento con Teheran”. Che sta succedendo? E perché i Paesi della regione sembrano decisamente più preoccupati, per la possibile escalation della crisi, di quanto invece stanno (colpevolmente) dimostrando Stati Uniti ed Europa? Gli specialisti di geopolitica lo dichiarano apertamente e mettono tutti sull’avviso: “I sauditi chiedono assicurazioni a Teheran sul fatto che le infrastrutture energetiche della regione saranno risparmiate. Mentre si parla di una possibile ritorsione israeliana contro le risorse petrolifere e del gas iraniane”.
Contrariamente all’apparente sottovalutazione del potenziale bellico degli ayatollah, fatto fino a giovedì dalla Casa Bianca, i Paesi del Golfo, con Riad in testa, sono in fibrillazione. Sanno che le loro infrastrutture energetiche (oleodotti, terminali petroliferi, raffinerie) sono ad alto rischio perché potrebbero subire un contrattacco iraniano indiretto. Cioè “strike” mirati condotti, per esempio, dagli Houthi. Uno scenario già visto nel 2019, nel periodo più cruento della guerra nello Yemen. In quell’occasione, gli Houthi colpirono gli impianti sauditi di Abqaiq e Khurais, di proprietà del gigante Aramco, riuscendo a dimezzare temporaneamente la produzione di petrolio del Regno.
Una strategia che avrebbe potuto essere mortale per l’economia di Riad, se non si fosse trovato il modo di aggiustare le cose, dando il via a una politica di pacificazione con gli ayatollah. Una strategia che si è poi sviluppata in modo ‘asimmetrico’, perché da un lato si è cercato il riavvicinamento con Teheran, ma dall’altro si è seguita la linea diplomatica tracciata da Donald Trump, cioè quella degli “Accordi di Abramo”. Che, però, non sono mai stati sottoscritti dall’Arabia Saudita, anche se si è molto discusso e si è quasi arrivati a un’intesa, tra Riad e Tel Aviv, poi saltata dopo la carneficina del 7 ottobre, innescata da Hamas.
La guerra di Gaza, in seguito, non ha fatto altro che sancire una precisa scelta geopolitica dei sauditi: quella di scendere a patti con Teheran, trovando aree d’interesse comuni nell’economia e minimizzando le divergenze in altri campi. Grande mediatrice di questo riavvicinamento è stata la Cina, sempre pronta a sfruttare le defaillances della diplomazia americana. Una palese incapacità, quella Usa di gestire anche l’attuale crisi, che fa dilagare a macchia d’olio reazioni diffuse di allarme tra i Paesi della regione.
“Gli Stati del Golfo – scrivono gli analisti di al-Monitor – restano spaventati dalle ipotesi del presidente Usa secondo cui Israele potrebbe attaccare le installazioni petrolifere iraniane. E il candidato Trump non ‘s’era ancora messo nel mezzo. I leader del Golfo ora temono che i loro stessi asset energetici possano essere esposti ad attacchi iraniani per procura da parte degli Houthi”. Certo, stupisce che gli Stati Uniti, i principali e insostituibili finanziatori delle guerre israeliane, non impongano a Netanyahu di evitare attacchi che potrebbero fare esplodere il prezzo internazionale del greggio. E, a seguire, della benzina, uno dei fattori storicamente discriminanti per ottenere il consenso (o il dissenso) alle Presidenziali americane.
Se Biden lascia attaccare le strutture energetiche iraniane, potrebbe finire per affondare Kamala Harris. E ieri il Presidente ha corretto il tiro, dicendo “che al posto degli israeliani non attaccherebbe le installazioni petrolifere degli ayatollah”. Ma il danno era stato fatto, tanto che il Wall Street Journal ha scritto che, “sul Medio Oriente, Biden è stato messo da parte”. Un ‘blitz’ contro gli impianti petroliferi, sarebbe in primis un colpo micidiale allo sviluppo della regione e più in generale, alle prospettive di ripresa dell’intero pianeta. Nell’area passa oltre il 30% del petrolio mondiale. Per questo, il Ministro degli Esteri saudita, Faisal bin Fahran, incontrando in Qatar il Presidente iraniano Masoud Pezeshkian ha voluto chiarire che il suo Paese “intende chiudere per sempre il capitolo sui disaccordi con l’Iran e sviluppare relazioni come tra due amici”.
Netanyahu -come consiglia Trump-, potrebbe far divampare una guerra in piena regola contro gli ayatollah, col fine principale di distruggerne i siti di arricchimento nucleare. L’opzione di attacco alle infrastrutture energetiche resta pure alta, anche se, stupisce l’incredibile inerzia di Biden. Subito dopo il lancio dei missili iraniani su Israele, il prezzo del greggio Brent è balzato del 5%, per poi stabilizzarsi intorno ai 74 dollari al barile. E questo è solo l’inizio. L’Iran è il terzo produttore dell’Opec, con 3,277 milioni di barili al giorno, di cui almeno 1,6 vanno all’export (principalmente India e Cina). Teheran è anche in testa alla produzione di gas naturale nel Medio Oriente, con circa 251,7 miliardi di metri cubi. Sembra molto, ma non lo è, perché i consumi iraniani sono di gran lunga superiori. Un colpo a queste infrastrutture potrebbe mettere in ginocchio l’economia, già dissestata, del Paese.
Golfo Persico, Mar Rosso e Suez bloccati?
E allora, attenzione: “à la guerre comme à la guerre”, gli ayatollah o, peggio ancora, le Guardie rivoluzionarie, se dovessero ritrovarsi con l’acqua alla gola potrebbero attuare una mossa disperata, come il blocco dello Stretto di Hormuz. Basterebbero alcune centinaia di mine magnetiche o ‘a pressione’. Stessa cosa per gli Houthi e lo Stretto di Bab-el-Mandeb, che dal Mar Rosso porta al Canale di Suez. Sarebbe una scelta in qualche modo suicida, anzi, da vero e proprio “martirio collettivo” per gli sciiti. Ma avrebbe degli effetti straordinariamente devastanti per chi dovesse subirla. Cioè, tutto il resto del pianeta.