Il 22 febbraio 1076 papa Gregorio VII, da tre anni sul trono di Pietro, scomunicò l’imperatore Enrico IV e sciolse i sudditi dal vincolo di obbedienza. Il provvedimento era di una gravità inaudita. Circa un anno dopo, nel gennaio 1077 nel castello di Canossa, sull’Appennino emiliano dove il papa era ospite, l’imperatore si presentò a chiedere il perdono: il viaggio non era stato facile, sia perché molti signori avevano interdetto il passaggio allo scomunicato costringendolo ad attraversare le Alpi occidentali con una lunga deviazione, sia perché l’ultimo tratto si era svolto in pieno inverno.
La tradizione racconta che Enrico, prima di essere ricevuto dal papa, abbia trascorso tre giorni e tre notti nel cortile del castello in abito da umile penitente, scalzo e indossando un saio da frate. Il perdono fu concesso ed Enrico tornò in Germania: sedò subito una rivolta di nobili contro di lui che avevano approfittato delle sue disavventure per detronizzarlo e raccolse un esercito per calare in Italia e regolare la disputa con il papa.
Dopo aver sconfitto i vescovi e i nobili tedeschi, nel 1080 nominò vescovi favorevoli a lui e perfino un anti-papa che assunse il nome di Clemente III. Il pentimento e la promessa di pace con il papa furono un espediente per guadagnare tempo, anche se rimase l’immagine di un potente esposto al freddo e sotto la neve. Mentre chiedeva udienza e assoluzione, probabilmente Enrico pensava già a come vendicarsi: alla fine il suo esercito raggiunse Roma costringendo Gregorio a rifugiarsi a Castel Sant’Angelo.
Cinque secoli dopo, a dedicare ampio spazio alle ‘false promesse’ dei potenti, fu Niccolò Machiavelli che scrisse testualmente «quante promesse sono state fatte irrite e vane per la infedelità de’ principi». Messer Niccolò racconta soprattutto di papa Alessandro VI, il famoso Rodrigo Borgia, e descrive spietatamente il suo operato fatto di cambi repentini di alleanze, intrighi, tradimenti o perfino assassinii: «Alessandro sesto non fece mai altro, non pensò mai ad altro che a ingannare uomini». Dietro la guerra condotta dal figlio Cesare, il duca Valentino, per la conquista di uno stato con una posizione centrale in Italia (la Romagna) per garantire la stabilità, c’era infatti il papa in persona che prometteva generosamente ricchezze e potere e poi le negava spudoratamente.
Non ci fu però solo Machiavelli a narrarne le malefatte: in quegli stessi anni cominciarono ad apparire i cartelli anonimi appesi ad una statua romana da poco scoperta. Le ‘pasquinate’ a partire dai primi anni del Cinquecento svelarono i vizi del potere, ma rimasero confinate ad un ambiente colto di umanisti e solo in seguito avrebbero assunto il carattere popolare per il quale sono ancora conosciute oggi.
Quanto al popolo minuto di Roma, che non conosceva il latino, c’è da sottolineare che concesse comunque al chiacchierato papa una certa popolarità basata su grandi feste pubbliche e laute distribuzioni gratuite di cibo, contraddicendo Machiavelli che invece sostenne sempre che un principe doveva essere ‘più temuto che amato’.
Charles-Maurice de Talleyrand-Périgord, quando scoppiò la rivoluzione francese, era vescovo di Autun. Non era sorretto da una vocazione ardente, ma dalla consuetudine feudale di riservare il patrimonio familiare al primogenito indirizzando i fratelli minori di solito alla carriera delle armi o a quella ecclesiastica. La dignità vescovile era stata tuttavia frutto dell’abilità dimostrata dal giovane religioso in una trattativa tra la corona e la chiesa francese in materia di tributi: Charles-Maurice aveva convinto l’erario ad accettare dal clero una sorta di imposta volontaria – non calcolata sui redditi effettivi – in nome della buona fede dei chierici e della loro fedeltà alla monarchia.
Diventato membro dell’assemblea nazionale senza elezione, in quanto aveva comunque conservato il seggio che gli spettava di diritto come ecclesiastico, aveva poi convinto gli altri deputati a nazionalizzare i beni ecclesiastici. Fu l’avvio di una carriera brillante: incaricato di una missione in Inghilterra volta ad ottenere la neutralità britannica nei confronti della rivoluzione – in altre parole scongiurare un intervento in Francia – mantenne nello stesso periodo un ambiguo rapporto epistolare con il re di Francia appena detronizzato.
Costretto alla fuga correndo il pericolo di un processo per tradimento, riparò in Inghilterra e poi negli Stati Uniti: tornò in Francia dopo la fine del Terrore e l’insediamento del Direttorio per diventare ministro degli esteri, incarico che mantenne poi anche con Napoleone. Fu il periodo aureo, perché – nonostante il turbolento passato – mantenne a lungo la carica e sebbene esautorato alla fine da Napoleone, tornò alla direzione della politica estera francese dopo la Restaurazione monarchica e al congresso di Vienna.
In punto di morte, nel 1835, ottenne infine che il confessore gli conferisse il trattamento che spettava ai vescovi. Alla notizia della sua scomparsa si disse che era morto il solo uomo che aveva ingannato la terra e il cielo.