Per chi non ama seguire il conformismo del tempo, le domande senza risposte rappresentano il sale del senso critico che dovrebbe continuare ad animare la nostra partecipazione all’idea di libertà su principi di giustizia.
Cioè, non è che siano sparite del tutto le domande. È che sono precedute dalle risposte. Potremmo dire che le domande sembrano utili a quelle risposte che mantengono il discorso negli argini delle regole indiscutibili del potere.
Basta vedere l’assurdo di una narrazione tesa a giustificare, a sottovalutare, a fare mille distinguo rispetto a una tragedia umanitaria mostruosa e criminale che sta travolgendo la Palestina. E non solo. Le domande ci sono, la rabbia pure. Ma tutto finisce nel cono d’ombra narrativo di un sistema che non finge neanche più di essere democratico, di rifarsi ai valori umani che ci appartengono, che non sente neanche più il bisogno del nascondersi dietro le decisioni dell’Onu che un tempo sostenevano guerre assurde.
No, come un fiore che ha perso ogni suo petalo, rimane lo scandalo nudo e puro dell’ingiustizia e della ferocia del più forte. Di chi ha deciso che le regole internazionali sono carta igienica e il potere si nutre solo ed esclusivamente della forza militare ed economica. Tutto il resto è silenzio.
Che se ci pensi piangi. Quando pensi che il mondo è gestito da criminali di guerra razzisti e fascisti che non hanno alcuno scrupolo che fai? Aspetti che le soluzioni piovano dal cielo? Perché nel mondo segnato dal ritorno felice della guerra globale e del disastro climatico l’inconscio politico egemone vieta di immaginare alternative al capitalismo globale (citazione da un messaggio del mio amico Pancrazio). E alla nostra umanità non resta che ripiegarsi in un cassetto come un fazzoletto bagnato di lacrime; non resta che storicizzare la nostra impotenza e organizzare qualcosa.
Scenderemo in piazza ancora? Certo. Lotteremo, certo. Continueremo a sognare un mondo migliore? Sì. E siccome lo sanno, inaspriscono le pene. Alzano i manganelli al cielo, sono pronti a sparare e a reprimere ogni protesta che metta in discussione il sacro potere del sistema militare e finanziario.
Che fare, allora? Continueremo, per quieto vivere, a fingere di essere liberi, etici e interessati alla cultura di intrattenimento, disinteressandoci di tutto? Continueremo a commuoverci di fronte a spot umanitari che non mettono in dubbio il sistema feroce che produce menzogna e violenza, fame e morte? Saremo liberi di goderci lo spettacolo mediatico che ogni giorno sorprende le persone con storielle inutili, battaglie inutili, sciocchezze che sono elevate a questioni filosofiche, facendo anche finta di fare la nostra parte sui social, con due storielline argute del ciufolo su Instagram?
Forse resistere per esistere vuol dire sottrarsi dall’incantesimo del tempo, mediatico, rutilante, scintillante. Togliersi dalle correnti più potenti, dalle strade battute dal successo e dall’ammirazione per chi lo ottiene a ogni costo, da quelle che percorriamo bendati per far finta che non esista la crudeltà militare e politica, con declinazioni sociali, dell’epoca. Fingendo di non aver capito, di non aver saputo, come quelli che ignorarono le deportazioni, i campi di concentramento, i massacri seriali.
Forse resistere, per esistere e lottare, consiste nel percorrere sentieri impervi del senso critico, per una diserzione organizzata dall’esercito mediatico e politico che sta devastando il nostro tempo. Ricordando che la bufera strappa i fiori, ma non distrugge i semi.