Crollo del mercato immobiliare, debolezza dei prezzi al consumo e tensioni commerciali globali crescenti sono il piano inclinato che rischia di portare la Cina alla stagnazione dopo decenni di una straordinaria crescita del Pil.
La sovracapacità produttiva cinese problema planetario. Tutto ciò che il Dragone produce (circa un terzo della manifattura mondiale passa per Pechino) e non consuma internamente, si riversa all’estero, con molte e rilevanti conseguenze. I consumi dei cinesi rappresentano solo il 53,4% del Pil totale della Cina, mentre la media globale è del 72%.
In Cina le pensioni, l’assistenza all’infanzia, agli anziani, salute e istruzione sono a beneficio di pochi; quindi i cinesi (età media 39 anni) risparmiano molto per far fronte alle necessità del proprio futuro. E questo a Pechino sta bene. La scarsa propensione ai consumi appartiene alla storia dello sviluppo economico cinese guidato dal Partito Comunista. Il boom cinese degli ultimi decenni è stato alimentato da un’impronta ideologica che ha considerato il consumo come una distrazione individualistica che distoglie le risorse dalla sua base industriale, forza economica principale della Cina. Il vantaggio economico della Cina deriva perciò dai suoi bassi consumi e dagli alti tassi di risparmio che generano capitali che il sistema bancario incanala nelle imprese industriali, sotto l’occhio vigile dello Stato.
Poiché la base industriale della Cina dipende da finanziamenti a basso costo per sopravvivere sotto stretto controllo politico, l’élite imprenditoriale è strettamente legata agli interessi del partito. Le esuberanze imprenditoriali, come insegna la storia del patron di Alibaba Jack Ma, sono destinate a ridimensionamenti più o meno forzati. «In Occidente il denaro influenza la politica, ma in Cina è il contrario: la politica influenza il denaro», è il leit-motive che circola dietro le quinte degli ambienti economici cinesi.
Quindi se la gigantesca produzione cinese non verrà assorbita internamente, o dallo Stato che aumenta la spesa pubblica oppure dai consumatori cinesi diventati tutt’a un tratto spendaccioni, sarà costretta a riversarsi sui mercati esteri. Se negli ultimi decenni questa politica economica è stata parte della strategia, ora diviene necessità di sopravvivenza e lascia presuporre un aumento dell’aggressività commerciale. Staremo a vedere se le misure messe in campo dalla Banca Popolare Cinese saranno sufficienti a stimolare l’economia reale.
Il fondo di 800 miliardi di yuan (114 miliardi di dollari) per rilanciare il mercato azionario ha prodotto reazioni positive immediate, ma è ancora troppo presto per vederne l’effetto reale. Di certo la crisi inizia a condizionare tutte le aziende occidentali che esportano in Cina prodotti di consumo, in particolare quelli di fascia alta.
Cattive notizie anche per la Russia. La Cina ha offerto la sua moneta, lo yuan, a Mosca, valuta amica su cui appoggiare il proprio sistema finanziario escluso dal mercato in dollari a causa delle sanzioni. All’inizio è andata bene, ma i recenti venti di crisi sull’economia cinese hanno fatto crollare gli acquisti della valuta cinese da parte dei grandi fondi internazionali. Un vero tonfo in agosto che ha portato ai minimi dall’ottobre 2023. Da gennaio, lo yuan ha ceduto oltre il 2% rispetto al dollaro.
Nel bel mezzo di questa tempesta economico finanziaria, i russi hanno esaurito le riserve di yuan e ora dovrebbero trattare con la Cina per nuovi prestiti. Ma con la crisi in cxorso, sia Pechino che la Banca Centrale russa sono costretti a rivedere le strategie di alleanza monetaria. A beneficio, per ora, del dollaro e in attesa di nuovi interventi di Pechino in preparazione dell’imminente vertice dei Brics.